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The Man Who Sold His Skin di Kaouther Ben Hania (2020)

di il 19/05/2021
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"Sono sempre stato libero" (Sam Ali)

 

Inauguriamo la riapertura delle recensioni dei film in sala con un titolo che non è ancora presente ma che, auspichiamo, arrivi quanto prima, specialmente nell’imminente stagione estiva dove, nell’arena all’aperto, porterebbe quel po’ di freschezza che magari la canicola rifiuta.

Parliamo di The Man Who Sold His Skin della regista tunisina Kaouther Ben Hania. Il film è stato presentato nella sezione “Orizzonti” alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia, dove il suo protagonista, Yahya Mahayni,  ha ricevuto il premio come migliore attore. L’opera, per la prima volta nella cinematografia tunisina, è stata inoltre candidata all’Oscar come miglior film in lingua straniera.

Non ci si faccia sviare da questo pedigree o dal titolo in odore di dramma.  The Man Who Sold His Skin è una commedia o meglio, una storia d’amore, come vedremo, ma, soprattutto, è una storia; non le noiose vicissitudini famigliari “Sundance” di un redneck coreano o, dal lato più popolare, le esibizioni di super poteri in apocalittici conflitti sempre con lo stesso canovaccio. Una storia, con delle premesse, degli eventi imprevisti e personaggi che, con i loro comportamenti, influenzano, appassionandoci, lo scorrere della trama. Qualcosa da raccontare e che vale la pena seguire. Qualcosa che latita, sempre più.

Sam Ali, un giovane siriano, è costretto a lasciare Abeer (Dea Liane), la ragazza che ama, e il suo Paese perché ricercato ingiustamente dalla temibile polizia segreta di Assad. La ragazza, su pressioni della famiglia, sposa un facoltoso diplomatico e si trasferisce a Bruxelles. Sam, accetta, in cambio di un visto sul passaporto che gli consenta di seguire la sua amata, di farsi tatuare, da un eccentrico e famosissimo artista europeo (Koen De Bouw), una copia ingrandita del visto stesso sulla schiena e di diventare, così, un’opera d’arte vivente disposta, per contratto, a esibirsi nei musei o a essere venduta all’asta.

Con un materiale di partenza così, tra l’altro ispirato a una storia vera, c’erano tutti gli elementi per creare un film di denuncia, da un lato del regime repressivo siriano e delle dittature in genere e, dall’altro, della mercificazione del corpo e della vita, perpetrata dall’èlite della Terra ai danni dei più deboli e oppressi. Così è stato, infatti, ingiustamente interpretato, a mio avviso, da molta critica. Kaouther Ben Hania, invece, in modo leggero e intelligente, scarta di lato i pesanti (e ipocriti) sensi di colpa occidentali e li utilizza, invece, per dare colore e drammaticità a quella che, come dicevamo è, più che altro, una storia d’amore contrastato, simile, nella sostanza, alla maggior parte delle musalsal e dei film popolari egiziani con i quali la regista è sicuramente cresciuta. Certo, l’ironia e la critica nei confronti del mondo dell’Arte contemporanea e della sua fruizione non mancano, ma è chiaro che, all’autrice che è anche sceneggiatrice, interessa più portare a termine, in modo originale e partecipe, il racconto dei due sfortunati innamorati che non sollevare riflessioni sui valori o sulla loro mancanza nell’opulento e apparentemente ordinato Occidente.  La sua posizione politica, riguardo al supposto “scontro di civiltà”, è più radicale e sarà il sorprendente epilogo a rivelarla, con una dolcezza e una forza ben più avvilenti, per noi “ricchi e disperati” (citando un Santo Padre), di qualsiasi satira, anche feroce.

Segnaliamo, per i fan dell’attrice e per gli amanti delle bellezze mature, la solida presenza di Monica Bellucci, in un ruolo secondario e notevolmente antipatico, come l’improbabile biondo colore dei suoi capelli.

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