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Berlinale 65 – Body (Cialo) di Malgorzata Szumowska

di il 08/01/2015
MI PIACE

- Alcune scelta di regia funzionali e non banali
- I dialoghi e i silenzi nelle giuste dosi
- I buoni sentimenti che non fanno vergognare

NON MI PIACE

- Olga non sembra per niente anoressica

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IL MIO VOTO


AFORISMA
 

Nell’eccessiva serietà vedo sempre qualcosa che fa un po’ ridere (Wislawa Szymborska)

 

Frequentando con una certa assiduità diversi festival cinematografici, ci si accorge di una deriva, iniziata da tempo, riguardante l’incapacità di trovare storie interessanti e, soprattutto, di saperle raccontare e portare a termine. Di questa mancanza si è arrivati a farne un genere: una sorta di cronachismo nel quale il regista sembra nascondersi dietro un vetro, quasi per paura di sporcare, e la materia trattata inizia e termina più o meno brutalmente, come una fetta qualunque di vita, come fosse la vita.
Tra i film visti a Berlino, ad esempio, I am Michael di Justin Kelly può considerarsi un paradigma del genere.
Sospetto che anche il proliferare dei documentari, alcuni assai belli, in verità, non sia estraneo al fenomeno.

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Per fortuna, quando quasi ci si rassegna al manicheismo monotrama dei multisala \ senzatrama del circuito d’essai, spuntano, rari ormai come quadrifogli, opere come Body, della regista polacca Malgorzata Szumowska, a sbarrare gli occhi sempre bambini del cinefilo nostalgico con un racconto interessante, ben condotto, emozionante.
L’insolito triangolo: un coroner disilluso e padre assente; Olga, la figlia anoressica che non riesce ad elaborare il lutto per la morte della madre; la sua terapeuta Anna, sensibile e sensitiva, sola e in balia delle smanie comunicative dei morti. Il corpo, inteso come materia greve, come sede dell’individuo è lavoro per il primo, problema per la seconda, assenza da colmare per la terza. Nello spazio di pochi giorni, grazie a tratti discreti ma precisi, impariamo a conoscere i loro caratteri, seguiamo l’evolversi dei loro rapporti, vediamo risolversi il nodo principale che è poi il rapporto padre\figlia.
La vicenda ha un’oggettività drammatica: l’anoressia, il conflitto famigliare, il rapporto con la morte e con le anime, il ricordo dei defunti; eppure, grazie a una leggerezza che sembra discendere direttamente dalle poesie della conterranea Wislawa Szymborska, accanto a momenti di straziante dolore, come, ad esempio, durante lo psicodramma condotto da Anna per far emergere le ragioni profonde dell’odio di Olga per il padre, la regista inserisce siparietti di comicità irresistibile, scaturenti spesso dalle pieghe di assurdo che ognuno sperimenta più e più volte nell’esperienza unica e bizzarra che è la vita così come è strutturata nel mondo occidentale e, forse, in ogni altro contesto.

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Il personaggio di Anna, interpretato dalla bravissima Maja Ostaszewska, diviso tra la professionale razionalità della terapeuta istituzionalizzata e le trance spiritiche con cui consola il lutto dei parenti, riportando messaggi dall’aldilà dei loro cari, fa da perno e motore della storia. E’ a lei, alla sua non scelta solitudine di single, che sono riservati la maggior parte dei momenti lievi che stemperano il dramma in commedia: il litigio col molosso con cui abita, la coppia di amanti spiati nel portone, gli incontri con gli spiritisti. Malgorzata Szumowska dirige con mano felicissima e originale una sua sceneggiatura altrettanto fresca, scritta in coppia, guarda un po’, con Michal Englert, ex marito della protagonista, a riprova che un sano nepotismo illuminato, specie in campo artistico (la famiglia Coppola docet), a volte può creare una magia che progetti più asetticamente strutturati non trovano.

Speriamo che il premio alla regia ricevuto alla Berlinale e la recensione negativa di Sentieri Selvaggi convincano i distributori a diffondere questo piccolo esempio di buona letteratura cinematografica.

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