C’è un piccolo trailer che viene proiettato spesso prima dell’inizio dei film, parla dell’anno 1965, anno in cui è stata emanata la legge che regola gli introiti dell’industria del cinema. La voce narrante si lamenta di quanto, da allora, le cose siano cambiate e di come oggi la fruizione del prodotto-cinema sia molto più varia della sola sala cinematografica come avveniva un tempo. Lo streaming online, ad esempio. Il trailer finisce con l’auspicarsi che il legislatore si muova verso l’emanazione di una nuova più attuale regolamentazione.
Ogni volta che finisce, dalla platea, parte sistematicamente uno scroscio di applausi ingenui di tuti quelli che a casa di spaccano di streaming pirata di cinema d’essai introvabile altrimenti.
Come se non sapessero che siamo in Italia, come se non sapessero che anche se iniziassero a tassare google, Facebook, youtube, yahoo e gli altri giganti, al cinema non arriverebbero che briciole o, peggio, il malloppo entrerebbe nell’anonimo calderone senza fondo di quella mafia criminale legalizzata che è la SIAE. Sparendo. Come se non sapessero che una nuova legge significherebbe oscurare i siti di Streaming piuttosto che dare soldi all’industria del cinema. La storia è una materia bellissima, che va studiata per non ripetere sempre gli stessi errori.
A tutti i faciloni che applaudono, presi dall’enfasi di panza, consiglio di pentirsi e di ripetere dieci volte:
e cinque:
Amen.
Ora passiamo alla passione:
Island city di Ruchika Oberoi
E’ un film FEFF-Ready: cinema popolare asiatico purissimo. Ci voleva proprio una commedia, un po’ d’ossigeno dopo tanti mattoni. Divertente, surreale e azzeccato. Memorabile la scena finale del primo episodio in cui, dopo la strage per la troppa felicità inoculata a forza, la mano mozzata del capoufficio vola in cielo attaccata al palloncino colorato della festa. Tre episodi, un bello slideshow sulle potenzialità del cinema indiano, tre bei lunghi trailer di generi diversi: comico, grottesco e romantico. Ma dopo un’ora seduto in sala mi chiedo: ma il film, quando inizia?
Lama Azavtani di Hadar Morag
Candidato al Queer Lion, è un film confuso e pesante.
Evirazioni, sodomia, pedofilia, violenza e razzismo: con tutti questi ingredienti scoppiettanti non deve essere stato facile per la regista renderlo così noioso. Farina, mani sporche, l’assenza di dialogo, l’operaio al lavoro con le gocce saline che scendono dalla nuca, un respiro costantemente affannoso e l’immancabile religione che apre il film e lo chiude nel dramma. Tutto per esasperare un certo immaginario collettivo volgare. La limega, animale simbolo della pellicola, ne è sintesi completa: lento e umido.
Scelta discutibile quella di pensar di sorprendere sul finale il poco pubblico rimasto in sala (dimezzato dalla noia) con il taglio genitale. Ma d’altra parte è anche la sola scena che può far discutere.
La regista con la sua cascata di capelli è stupenda e, per ora, solo rimandata
Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio
A metà tra fiction TV e grande cinema. Di certo senza il Conte non sarebbe niente. Vive di due/tre momenti felici – il dialogo col dentista sopra ogni altro – che lo alzano dalla mediocrità del cinema italiano. Se dei due episodi di cui è composto avesse tagliato del tutto il primo (quello dell’indemoniata), ne sarebbe venuto un bel mediometraggio. Ma così com’è la media di qualità è appena sopra la sufficienza.
In ogni caso, ora che – dopo il film francese – ho messo la tacchetta anche sull’italiano, posso lasciarmi alle spalle il terzo mondo cinematografico e dedicarmi a quello di serie A. Nel 2015 il terzo mondo è rimasto terzo mondo. Nulla di nuovo sotto il sole, e la domanda rimane sempre la stessa: perchè i film italiani devono sempre somigliare a delle soap opera? La risposta è talmente triste che preferisco far finta di non saperla
Anomalisa di Charlie Kaufman
Vita, relazione, follia, mortificazione, depressione e solitudine profonda. Nel raccontare una storia di miseria umana, descrive una piega violenta che solitamente si cerca di nascondere: i vampiri esistono, girano per le strade, ma non hanno mai succhiato sangue, succhiano la vita degli altri, per tirare avanti un altro po’, fino alla prossima vittima. Ma non è solo trama, questa, anzi, è l’ultima delle preoccupazioni: il progetto è una scusa per dar sfogo alle mille idee sconnesse frenetiche e instabili che il regista farnetica senza forma o misura. Intendo: il film parla più della sala riunioni infossata che della solitudine dell’uomo d’affari col cuore di cane (tenero, sincero, vuoto e bastardo). Memorabile il primo Cunnilingus in Stop-Motion della storia. Finalmente, dopo Sokurov, un altro cavallo di razza in concorso alla 72ma Mostra del cinema. Il mio preferito visto fin’ora: un piccolo capolavoro in plastilina
11 minut di Jerzy Skolimowski
Bello tamarro, il bravo Skolimowski porta alla Mostra il primo film in cui la colonna sonora non è solo funzionale ma moltiplicatore del piacere della visione. E’ una storia corale che si costruisce unicamente in funzione di una lunga scena finale in stile Big Domino Rally.
Purtroppo le storie in sè non sono praticamente di alcun interesse ma il gioco cinematografico non voleva certo badare a quelle: al regista interessava il meccanismo ad incastro. Una sfida, una dimostrazione di forza e furbizia tecnica.
L’unica tra le piccole sotto-trame che merita di essere ricordata è una sorta di plagio del famosissimo canale YouPorn chimato “Fake Agent”, in cui un finto agente cinematografico adesca giovani donne (in cerca di far carriera del porno) per trombarle, filmarle e vendere il video su Internet: un divo (fake) dell’era cyberspaziale.
Skolimowski, invece, più che fottere il pubblico, ha voluto fare il figo, e un po’ c’è pure riuscito: bell’esercizio di stile.
Ma alla fine, questo film, principalmente, ci insegna che lo Polonia è piena di figa.
Heart of a dog di Laurie Anderson
Un audio-libro di rutti cerebrali sconnessi raramente interessanti. Una voce fuoricampo per 90 minuti che nemmeno il padreterno. Passa dal suo cane musicista al NY 9/11, dal grande fratello alla morte e ai ricordi d’infanzia, senza continuità di pensiero.
L’installazione audio avrebbe fatto forse miglior figura alla Biennale Arte più che alla Mostra del Cinema.
Bella la storia di quando si è rotta la schiena da bambina, ne consiglio la distribuzione all’interno della collana Fiabe Sonore: agevola il sonno a bambini e adulti. Un mito della vecchia guardia dell’arte d’avanguardia che probabilmente è ora che vada in pensione.
Mate-me por favor di Anita Rocha da Silveira
Blandi omicidi sessuali sullo sfondo e galline quindicenni sudamericane in primo piano. Difficile anche solo scriverne qualcosa. Ottimo per la pennichella del primo pomeriggio.
Il vuoto pneumatico. Fighe loro
The Return di Green Zeng
Fino a non più di una decina di anni fa, in quel di Singapore bastava una parola sbagliata o un sospetto per potersi vedere arrivare a casa all’alba un manipolo di musi gialli in divisa, armati. E sparivi. Niente processo, niente spiegazioni e niente più notizie di te. Cancellato. The return è un asian-movie che gioca talmente tanto di sottrazione che alla fine non rimane più nulla (cit.). Dato l’argomento, con tutto quello che si poteva mostrare e raccontare, il film si limita a mostrare un (ormai) anziano, liberato dopo decenni di “trattamento“, seduto su una panchina a pensare a quello che gli è capitato e che al pubblico non è dato sapere. Fermi immagini di una vita ferita per sempre.
Credevo che la mia sensazione di smarrimento fosse dovuta al raffreddore che mi sono beccato in vaporetto (sborino killer alla nuca alle due di notte) o all’Actigrip, visto che dicono che i farmaci non siano esattamente compatibili con la mia “particolare” dieta da festival ma, le facce inebetite dei miei amichetti fuori dal cinema, non lasciavano dubbi: il film è da sconsigliare a 360 gradi.