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The great pretender (Animazione, co-produzione #Netflix) di Hiro Kaburagi, Ryōji Masuyama

di il 25/12/2020
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Le produzioni Netflix peccano molto sulle serie animate: una ha una grafica orrenda, un’altra una storia noiosissima, una terza cavalli con criniere arcobaleno stile LSD anni ‘70. The great pretender aveva tutti gli ingredienti per invertire la rotta ma, anticipiamolo, non è così.

La serie si presenta come un ocean 11 in versione animata con un tocco giapponese apprezzabilissimo: truffatori che truffano criminali. Un revival di occhi di gatto e Lupin III. Come narrazione si sente l’ispirazione di “The Breaking Bad”. Purtroppo, l’illusione di qualità si sbriciola a partire dal primo minuto e continua fino a lasciarci, alla fine della prima storia, l’amaro in bocca di un’occasione mancata. Ci aspettiamo colpi di scena intelligenti, ma niente. Oppure idee sempre diverse, invece la stessa -nemmeno tanto ingegnosa- viene riciclata nel primo stream di episodi almeno tre volte. Siamo lontani anni luce sia dall’ingegnosità presente in Death Note, che dallo humor di Archer. L’amore, i sentimenti e l’erotismo sono sviluppati in modo superficiale. I personaggi, non credibili, non sanno coinvolgere: le loro angosce non diventano mai la nostra angoscia. E se uno, specie in questo periodo, di angosce non ne avesse abbastanza?

Solo la prima puntata, quella che vende illusioni, è salvabile grazie a qualche doppio senso estratto dalla cultura giapponese e l’uso intelligente della doppia lingua.

Caro Babbo Natale, porta a Netflix degli autori di serie animate ingegnosi: certo i soldi per fare dei bei lavori li hanno, forse glieli hai portati due Natali fa, ma anche le teste sono importanti. Evidentemente l’anno scorso qualcuno ti ha chiesto che i dirigenti Netflix capissero che per fare serie animate giapponesi servivano dei giapponesi. Su questo ci siamo. Ma per quest’anno, fai anche questo sforzo. Tua, cricchetta.

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