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I Smile Back di Adam Salky

di il 19/12/2015
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MI PIACE

Sarah Silverman

NON MI PIACE

l’autrice, pur essendo sceneggiatrice, non lotta per ottenere un film migliore

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IL MIO VOTO


 

Laney Brooks sa di non essere carente di affetto, ma è possibile sia un po’ annoiata. In questo “I Smile Back”, di Adam Salky, Laney Brooks (Sarah Silverman) si cala nel ruolo di quella che dovrebbe essere la situazione di centinaia di donne mediamente benestanti, se consideriamo che statisticamente la depressione diventa ogni giorno un argomento sempre più rilevante, se non allarmante (si legge che la depressione stia colpendo più di 120 milioni di persone al mondo).

In questo film, la forza che ci spinge a seguire Laney Brooks non risiede però nella “malattia”. Proviamo simpatia o sinergia con Laney per altri motivi: per l’amore che dimostra verso i suoi figli, oppure perché ognuno di noi cova quel certo morbo nel testimoniare la discesa nella spirale di autodistruzione di altri – così come se fossimo al museo e ci trovassimo davanti a un affresco particolarmente perverso- oppure, infine, perché vorremmo trovarci al suo posto.

Nel romanzo di Amy Koppelman, pubblicato nel 2008, gli elementi che determinano la fragilità di Laney Brooks non sono del tutto chiari, almeno non immediatamente, e il film rispetta questa linearità dettata dalla narrativa. Solo quando ce lo consentirà il naturale percorso dello svolgimento degli eventi, capiremo che Laney è stata abbandonata da suo padre quando aveva solo nove anni, e le conseguenze devastanti di questo gesto.

A corredo della vita di Laney c’è una casa fiabesca arredata con gusto, due figli amorevoli e intelligenti, e un marito devoto che sa perdonare (nel film), ma che gli sceneggiatori hanno scelto di fare in modo che non le tenga testa. Ci si chiede dunque: cosa può andare storto nella vita di una persona che parcheggia il SUV davanti a casa e non deve preoccuparsi della scadenza del pagamento delle bollette? Dov’è la beffa? Cosa rende Laney così vulnerabile? Ed è proprio cercando risposta a questa domanda che ce ne accorgiamo che in questo film qualcosa è a metà. Il film inizia dalla metà. La regia non ci consente di sviluppare totale immedesimazione per il vuoto nel quale sprofonda Laney, non sappiamo cosa la avvilisca, non sappiamo perché sia inconsolabile. Il risultato di una notte nella quale vagabonda smarrita nella sua villa, beve molta vodka, usa molta cocaina, e si lascia consumare dalla disperazione finiscono per mandarla in clinica psichiatrica (altrettanto conosciuta come “rehab”). Nulla di nuovo sotto il sole, e invece si affaccia qualcosa che raramente ci ritroviamo davanti in quanto spettatori: Sarah Silverman è un’attrice capace di trasmettere tutta la angoscia di Laney. Sarah Silverman sembra non stia recitando: Sarah Silverman sta soffrendo quanto Laney, così come ha sofferto Björk durante le riprese di “Dancer in the Dark”, o Adèle Exarchopoulos nella “Vita di Adele”. Personaggi che fanno male, e dai quali rimaniamo avvinghiati quasi involontariamente. Sarah Silverman non “indossa” la tragedia che la colpisce, così come invece indossa la sua bellezza, non è una maschera. Laney nuoce sé stessa, suo marito, e noi. Nel romanzo, Bruce, suo marito, si permette di chiamarla “puttanella viziata”. Nel film Bruce è un uomo integro, è un personaggio sfortunatamente cinematografico che non rende giustizia alle vere dinamiche di coppia. Non c’è rancore, non c’è tristezza, nel suo sguardo c’è sempre un velo di immutata clemenza.

Il risultato finale è un film poco memorabile, cupo, infinitamente drammatico, dove si cristallizza il cliché di due che non sono mai uno, dei demoni che a mala pena sappiamo nascondere, e altre banalità da classifica dei libri più venduti della Feltrinelli. Tuttavia spunta fuori un quadrifoglio, un’anomalìa: una commediante del calibro di Sarah Silverman che conosce il vero significato della tristezza, e non risparmia un colpo o una ferita allo spettatore, quasi facendoci desiderare di aver letto il romanzo al posto di aver visto il film, perché questa visione fa troppo male. La depressione non deve mai definire la persona, ed è ciò che cerca di dirci Laney. La sua è una condizione, non è “depressa”, o non “solamente depressa”, Laney trasgredisce, è crudele, cerca e trova fonti di piacere passeggero. “I Smile Back” dovrebbe essere visto da ogni quarantenne, da ogni coppia, da ogni madre. “I Smile Back” assomiglia a quel brano dei Blonde Redhead Elephant Woman (dall’album “Misery is a Butterfly”): “lay me down on the ground, softly, softly. Don’t remove my head, hurts much too much. You never return it, well I wouldn’t miss it, I shed no tears for broken me, you never know it, my peace of mind. Now inside and outside, are matching”. Laney perde la sua bellezza esterna, viene brutalmente assalita sessualmente, e forse solo quando vediamo Laney tumefatta e gonfia dopo la violenza inflitta sul suo volto, intravediamo l’orrore che permea la sua mente.

I Smile Back (2015)
I Smile Back poster Rating: 6.2/10 (5,752 votes)
Director: Adam Salky
Writer: Paige Dylan, Amy Koppelman
Stars: Sarah Silverman, Josh Charles, Skylar Gaertner
Runtime: 85 min
Rated: R
Genre: Drama, Mystery, Romance
Released: 06 Nov 2015
Plot: Addicted to drugs and alcohol, a housewife's self-destructive behavior starts to take its toll on her husband and two young children.
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