il siparietto in cucina a ritmo di "Dragostea din tei", quasi da far venire i sensi di colpa
l'assenza dei bambini
L’adattamento della pièce di Jean-Luc Lagarce, che riporta lo stesso nome della pellicola (scritta nel 1990), è principalmente la storia di un figlio assente, che torna a visitare il nucleo familiare lasciato oltre dodici anni prima, con l’intento di svelare ai membri della sua famiglia che sta per morire. All’inizio della proiezione temevo gli inevitabili stereotipi e quei vezzi che ho trovato, undici anni fa, in quella schifezza di François Ozon, che era “IL TEMPO CHE RESTA – LE TEMPS QUI RESTE”, brutto e scontato. Non che Xavier Dolan ne esca indenne, ma non siamo ai livelli di banalità disarmante dentro la quale ogni tanto Ozon ci sguazza.
Nel film di Dolan i personaggi -dalla madre (che si concia come una trans, per l’arrivo di suo figlio), alla moglie del fratello (Vincent Cassel), che non sa se dare del “lei” o del “tu” a un cognato mai incontrato prima (un’eccelsa Marion Cotillard che dona tutta la sua luce al film)- sono tutti soggetti che si dilaniano, si straziano, talvolta con ironia, ma quasi in ogni fotogramma, con sincero rancore.
Lo psicodramma all’interno delle mura di una casa è stato abbondantemente affrontato dal cinema Dogma (basta ricordare Festen – Festa in Famiglia, del 1998, di Thomas Vinternerg), a quasi tutte le telenovelas sfornate dalla sciagurata Susanne Bier, e persino da Roman Polański, in quel capolavoro che è Carnage. Dolan non gioca con le sottigliezze, con il “bentornato a casa figliolo che ci sei mancato”, non strizza l’occhio all’ipocrisia neppure per accontentarci un po’ in quanto spettatori sensibili, che avremmo probabilmente trovato in quel registro un po’ di respiro.
Dal primo momento gli attori danno libero sfogo alla repressione della violenza verbale, alla curiosità di un ritorno che non si aspettavano, e che probabilmente non desideravano. Chi si assenta spesso idealizza ciò che lascia, e spesso si commette l’errore di pensare che il passato rimanga statico, fermo. Chi va via e poi torna, ritrova nuovi equilibri, cambiamenti, e ogni fotografia che si era galvanizzata con colori vivi, ora improvvisamente sbiadisce. Esiste una colpa da dare a colui che decide di allontanarsi dalla propria famiglia? Ed è giusto presentargli questa colpa in un piatto d’argento il giorno in cui decide di tornare?
La traiettoria della narrativa, che si svolge quasi in tempo reale, non lascia spazio alla cautela non violenta. Antoine, il fratello maggiore di Louis, è un uomo di campagna, che non nasconde la propria aggressività. Durante i dodici anni in cui Louis è diventato un bravo redattore e un artista, Antoine si è sposato, ha due figli (di sei e quattro anni), ed è diventato un uomo dispotico. Insieme alla sorella minore, Suzanne (Léa Seydoux), e alla madre (Nathalie Baye), riescono ogni giorno a sopravvivere in quell’imperfetto e precario equilibrio che contraddistingue ogni famiglia che non possiede gli strumenti per affrontare il dolore.
Alcuni momenti scivolano inutilmente in un manierismo tedioso, mentre il regista cerca di mostrarci ogni sfumatura della disfunzionalità di una famiglia; al punto di sovrastare la verità che lo stesso Louis era tornato a condividere con loro. A fine proiezione ci si chiede cosa non sia funzionato, cosa ci abbia portato a essere così straordinariamente prosciugati. Non tutte le famiglie rappresentano un nido dove tornare e trovare calore. Talvolta, come scrive Max Porter ne “Il Dolore è Una Cosa con le Piume”: “il corvo se ne sta esaltato in una pozza di lerciume, a spazzare e raschiare avanzi di demone per mandarli giù nello scarico”.
La bellezza sofferta di Louis, e la decisone dell’epilogo, ci lasciano l’amaro di un connubio sbagliato: il coraggio e la vigliaccheria. Dolan ottiene la sufficienza, e sembra voler dire: “smettetela di darmi dell’“enfant-prodige”. E ci riesce. Non gli diremo più che è un “enfant” di nessun tipo, ma dimostra di essere un regista, che non deve per forza azzeccarle tutte: “È SOLO LA FINE DEL MONDO” mette lo spettatore davanti a un bivio, se vivere la storia addentrandosi nelle fessure e le crepe di ogni personaggio, oppure, percorrere la strada del totale distacco, in modo da trovare una via d’uscita indolore.
Il sottoscritto appoggia in pieno la citazione di Emily Dickinson: “meglio un fuoco fatuo, che la assenza – completa – di luce”, e così ho lasciato che i personaggi mi entrassero nelle vene, nelle viscere. Non ho resistito alla bravura di Marion Cotillard, alla goffaggine di Vincent Cassel, alla dislessia genitoriale della figura materna, e attendo Dolan alla prossima prova (sperando sia un’esperienza meno aspra di questa). Il brano che accompagna i titoli di testa racconta ciò che stiamo per vedere “Home it’s Where it Hurts”. Un brano meraviglioso.
It's Only the End of the World (2016) | |
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Rating: 6.8/10 (25,308 votes) Director: Xavier Dolan Writer: Xavier Dolan, Jean-Luc Lagarce Stars: Gaspard Ulliel, Marion Cotillard, Léa Seydoux Runtime: 97 min Rated: N/A Genre: Drama Released: 30 Jun 2017 |
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Plot: Louis (Gaspard Ulliel), a terminally ill writer, returns home after a long absence to tell his family that he is dying. |