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…a volte ritornano, Juste la fin du monde di Xavier Dolan

di il 18/02/2017
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IL MIO VOTO


AFORISMA
 

Il film più significativo del 2016

 

“Volevo andare ad Auschwitz a farmi una sega per poi scrivere una poesia”

“Normalmente si crede che uno che non parla molto sia un buon ascoltatore,
ma io sto zitto perché voglio che la gente mi lasci in pace”

Vorrei dire una cosa agli egoisti megalomani schizzati che pensano che il mondo giri attorno a loro come fa il protagonista di questo film: andate a fanculo.
Fanculo a voi che prima scappate e poi godete nel tornare a farvi vivi rimarcando così la vostra assenza.
Fanculo a voi che pensate che il mondo sia quel poco a cui date importanza.
Fanculo a voi che non sapete che il reale è uno spazio interiore.
Fanculo a voi che pensate che la vostra sofferenza goda del diritto al sopruso su quella degli altri.
Fanculo a voi psicopatici del cazzo che calpestate l’amore per assecondare il desiderio, anche quando indotto.
Fanculo a voi che per togliervi l’ultimo sassolino indecente dalla scarpa cagate in faccia alle persone per cui siete importanti.
Fanculo a voi che tornate solo per aggiungere solitudine ad un vuoto che già costa troppo dolore.
Fanculo a voi che pensate che la vostra valvola di sfogo valga la punizione che infliggete.
Fanculo a voi che non sapete che tornare non è amore, è vessazione.
Fanculo a voi che non capite che dopo dodici anni di assenza, la vostra morte è solo un proforma che nella scala del dolore copre il posto più frivolo.
Cari egoisti megalomani schizzati:

Andate
A
Fanculo

 

Super-Dolan è un ragazzo bello e famoso, con in saccoccia già diversi premi vinti nei più rinomati festival internazionali: evidentemente, in Canada, la competizione non solo esiste ma è capace di premiare i talenti (in Italia da trent’anni a ‘sta parte invece le fiction le gira il figlio Bombolo solo perchè raccomandato dal commendatore palermitano di turno). Ha girato film altalenanti, che vanno dal vergognoso  (Tom à la ferme) al sorprendente (il debutto). La sua creatività si piega nel verso giusto solo con l’incoraggiante Mommy. Ma questa volta si gioca l’asso, scrittura un attore televisivo sulla cresta dell’onda (tanto bello© nei primi piani quanto brutto da lontano) e lo fa recitare assieme a tutti i possibili attori francesi di levatura internazionale e gira il suo miglior film in assoluto. Prende quanto di buono intuito nel film precedente ma incanala quell’isteria di ghetto in un contesto domestico, regalando alla visione un’empatia universale. Continua a navigare sulla medesima intensità ma, essendo questa la trasposizione cinematografica di un testo teatrale, risulta scritto dieci volte meglio.

È solo la fine del mondo è un film sul dolore. E’ la storia di un grandissimo figlio di puttana di 34 anni che – dopo aver lasciato la famiglia per seguire il sogno della grande città – torna a casa di sua madre, 12 anni dopo, solo per dire ai familiari che sta morendo. Un ipocrita, un incosciente che nemmeno immagina di riaprire ferite che non si possono rimarginare: le mutilazioni dell’anima dovute al trauma dell’assenza forzata e al vuoto che ha lasciato grondano dallo schermo da subito. Il ragazzo pensa ottusamente che sia una faccenda personale, privata, che non riguarda altri. Vuole farlo per sè stesso. Ma il dolore riguarda sempre tutti i soggetti del sistema nel quale si instaura. Lo spiegano bene le cartoline natalizie preaffrancate standard con cui pugnala i suoi cari ad ogni Natale: sono la trovata più bella dell’intera pellicola, seconda solo al lungo sguardo silenzioso e pieno di senso tra lui e la moglie del fratello in un momento onirico che non può che rievocare ricordi intensi e commozione profonda a chi quelle emozioni le ha vissute davvero.

La verità che l’opera vuole mettere a galla è che tutti son bravi ad andarsene, ma solo i giganti, gli eletti e gli esseri umani con la D maiuscola capiscono quanto sia importante il saper non tornare. Mettere in scena questa intuizione, sia chiaro, non è merito del regista, ma di chi ha scritto la pièce da cui il film è tratto. Il suo talento, però, mi ha chiuso la bocca subito, perchè le immagini sono potenti, evocative ed aggiungono molto al testo letterario, migliorandolo, lavorandolo per sottrazione, sostituendolo in parte tramite strumenti squisitamente cinematografici come le inquadrature umide, i colori minacciosi, i fermo immagini ansiogeni, i giochi d’ombra angoscianti e le canzoni di pregio, anche quelle da classifica. E non è facile dare pregio alle canzonette da hit parade. Così facendo confeziona a conti fatti un thriller senza omicidi e senza nessun mistero. Girato tutto praticamente in una stanza, verboso, dove ogni parola conta ed è indispensabile a creare l’emozione perfetta in chi osserva le immagini.
Il film, sinteticamente, aggiunge qualità ad un testo che esplicita un concetto geniale: tanto di cappello. Cosa si può volere di più dal cinema se non il commuoversi per storie di altri come fossero nostre da sempre?

A metà visione c’è una sola domanda nella mente degli spettatori: alla fine il nostro eroe che farà? Sputerà in faccia l’ultimo insulto ai suoi familiari, che cercano solo amore, comunicando il motivo egoista per cui si è fatto vivo? O capirà l’errore, imperdonabile quanto inconsapevole, che sta per commettere? E i familiari, nel frattempo, l’avranno già intuito o davvero non sono riusciti a leggere nel profondo di quello sguardo perduto? Con la solita furbizia festivaliera il regista lascia aperte entrambe le possibilità: lo sanno, non lo sanno, non importa, il messaggio relazionale, centro unico del film, non cambierebbe comunque. Ma capisco che qualcuno potrebbe rimanerci male. Il vero passo falso è piuttosto la paraculaggine all’ennesima potenza degli ultimi due minuti, con quella scena fantasiosa e svilente, ma lo perdono: se vuoi vincere un premio a Cannes, quello devi fare.
A fronte di questo scivolone, i talenti del film sono troppi per farsene un cruccio, ad esempio riesce a rendere credibile e perfettamente contestualizzata questa canzone di merda meritando tutto il mio rispetto:

La scelta sonora è talmente oculata da far pensare che sia l’immagine a nascere dal tappeto musicale e non viceversa come solitamente avviene. La musica, insomma, non è un riempitivo ma il grande motore che dà forza alle inquadrature. Gli voglio bene soprattutto per avermi regalato:

Per finire, caro Xavier, due cose:

  1. se vuoi una mano a bastonare i tuoi genitori per averti dato un nome che inizia con la X chiamami pure, puoi contare su di me;
  2. so che sei gay e so che la comunità gay ti ha aiutato a diventare quello che sei ora, so che per fare successo hai concesso il tuo giovane palpitante orefizio anale alla dirigenza di metà delle case di produzione cinematografica nei primi anni di lavoro, ma è acqua passata, ora ti sei elevato a Regista, non sei più un regista-gay: non serve infilare la tematica omosessuale per forza ogni volta, ok? Specie in film come questo in cui è totalmente superflua e non arricchisce in nessun modo la trama. Se continui così ti sminuisci a portantino del messaggio multicolore, lo capisci?

Non farmelo ripetere, che sono in vacanza.

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