Da mercoledì scorso la bilancia segna 1,3 kg in meno, altri 2 e posso iniziare a lavorare in un qualsiasi Go Go Bar di Rio per 150 real a botta. Mi si prospetta un futuro a dir poco roseo. La via del fitness che passa attraverso la Mostra del cinema di Venezia è semplice:
- sveglia all’alba,
- caffè, film, sigaretta, spritz al Cynar, Fisherman’s Friend alla liquirizia,
- ripeti il punto 2 per 12 ore,
- gelato, vodka tonic
- tornare a casa tardi trangugiando lupini alle due di notte un attimo prima di svenire.
- ripeti tutti i punti precedenti per 10 giorni.
- Goditi il fisico da Barbie®.
Lo so che molti credono che le 3 serie da 10 in panca piana siano sufficienti per tornare in perfetta forma, ma no. In più, come è noto, nei programmi di allenamento sono importanti anche i tempi di recupero e la cura #Venezia74 prevede che nelle pause, invece di andare a molestare la fichetta ricca che non suda sullo step, si riorganizzino le idee e si scriva qualcosa, nonostante il cervello annebbiato. Per tenere in movimento le rotelle, per non trovarsi sposati con quella principessina a guardare telefilm sul divano aspettando che i figli ti mandino a cagare o che si fermi anche il cuore, dopo il cervello.
Le portate dimagranti del weekend sono state:
Mi Hua Zhi Wei (The Taste of Rice Flower) di Song Peng Fei
Do you like videogames? Dopo la splendida opera prima Underground Fragrance, il regista cinese fallisce questa seconda importantissima prova. Ho sperato tanto di veder nascere un nuovo Grande del cinema asiatico ma per la sua consacrazione dovremo aspettare. Dopo cinque minuti era chiaro che il registro del film sarebbe stato quello omologato standard del cliché asiatico che tanto piace in occidente: i silenzi, i colori, la riflessione buddista e la ruralità dai paesaggi magnifici. È un classico visto in ogni salsa con minime variazioni sul tema. Le immagini sono una gioia per gli occhi, ma l’estetica da sola al cinema non funziona, questo film non ha niente da dire
Diva! – di Francesco Patierno
Fermi tutti, sto per parlare bene di un film italiano! Il biopic sulla diva italiana d’altri tempi Valentina Cortese. Questo documentario ha un sacco di buone qualità: dura poco, tiene alta l’attenzione, il ritmo è serrato e sopratutto ha la più bella colonna sonora tra i film visti fin’ora, tutta elettronica come piace ai Giovani®. Ha come un unico grande difetto quello di aver preferito, alla voce fuoricampo, l’inquadratura di attrici italiane che recitano parti del libro da cui il documentario è tratto. Non ho idea di chi siano le interpreti e non voglio saperlo, ma mi hanno rovinato una bella fetta di piacere. Temo che la scelta di mettere sullo schermo gente nota in TV o nei cinema della periferia romana sia stata una mossa di marketing alla quale il regista non ha potuto sottrarsi. A volte per capire quello che dicevano ho dovuto leggere i sottotitoli in inglese: possiamo per favore rendere obbligatori i corsi di dizione almeno per gli attori professionisti?
Looking for Oum Kulthum. di Shirin Neshat
Accozzaglia superflua mediorientale ingenua e profondamente soporifera. Parla di una regista che vuole fare un film sulla grande cantante egiziana di cui il titolo. Un film vuoto e infantile. Vorrebbe parlare del grande cambiamento interiore della regista che da serva dei produttori e del compiacere il pubblico vira verso una visione personale ed artistica. Ma fallisce proprio qui, sorvolando con superficialità sui motivi profondi di questo cambiamento. La pellicola finisce con un epico: “non si può accontentare sempre tutti“. Se chi lo ha scritto ha 6 anni allora potrei perdonarlo, mi informerò. Per questo film sono addirittura costretto a tirar fuori la mia temibile Arma Finale®: ci voleva poco a farlo meglio di cosi.
Ryuichi Sakamoto: Coda di Stephen Nomura Schible
Si vede che oggi era destino che guardassi solo biopic, via il dente via il dolore: il film parte chiarendo che Sakamoto è Sakamoto soprattutto per:
E che non se ne parli più. Poi spiazza tutti con la rivelazione della malattia: il musicista ha il tumore. Fortunatamente non è solo l’ennesimo spettacolo della morte, infatti il divo inizia a raccontare delle famose collaborazioni con Bertolucci fino ad arrivare ad Iñárritu. L’artista gira a ruota libera parlando delle torri gemelle, del disastro nucleare a Fukushima, della bomba atomica, della sua sensibilità per i suoni della natura. Interessante la parte del pianoforte recuperato dal mare dopo lo tsunami, tutto deformato. Lo suona e racconta che il fatto che lo si consideri scordato è un errore dell’artificio umano, perché i materiali con cui è fatto sono propri della natura e ora la forza della natura lo sta semplicemente riaccordando col suono del cosmo da cui previene. Devo ammettere che il pezzo che ne ricava, nonostante le dissonanze, è comunque niente male.
Il film in sè gira a vuoto, salta da un argomento all’altro senza arrivare da nessuna parte, ma non lo definirei noioso.
La villa di Robert Guédiguian
Film francese in concorso, del genere riunione di famiglia. Quattro fratelli si ritrovano nella casa d’infanzia per via dell’ictus che ha colto il padre. Tra scontri e confronti nasceranno nuovi amori e ne moriranno di vecchi. Il film funziona tagliente fino al flashback, ma non ha il coraggio di chiudere all’apice e rovina ogni bel ricordo in una sciocca storia buonista e senile sugli immigrati, che vanno tanto di moda.
Occasione sprecata. Consigliato ai nonni malati di telegiornale.
Brawl in Cell Block 99 di S. Craig Zahler
Come mi ero ripromesso ho recuperato la proiezione di mezzanotte del sabato, che per tradizione è il capolavoro tamarro del festival. Un bel film di ammazzi con un Vince Vaughn credibile spaccaossa: la cura True Detective gli ha fatto bene. Fratture esposte, teste calpestate, buoni sentimenti, messicani tatuati e machismo. Il mio paradiso in terra. Il ritmo è lento e il film dovrebbe durare meno ma ho goduto e mi sono divertito. Non è quel capolavoro trash che mi aspettavo e non è ignorante quanto avrebbe potuto, ma per la mostra del cinema va già bene così.
Tra i migliori del festival
Los versos del olvido di Alireza Khatami
Avendo tra le mani una storia così debole il regista tutto sommato ha fatto un buon lavoro. Un vecchietto lavora per un cimitero con annesso obitorio che viene dismesso prima di seppellire l’ultimo cadavere, così il nonnino farà di tutto per metterlo due metri sotto terra come Dio (o meglio la balena) comanda. Il film è privo di ritmo/colore/musica e le vicende non sono interessanti, inserisce però un paio scene naif e ficca dentro spizzichi superficiali di politica: forse nella mente di chi lo ha prodotto erano ingredienti dovuti perché ne risultasse un film “da festival”
Consigliare questa visione significa probabilmente perdere un amico
Marvin di Anne Fontaine
Film recchia vecchio stampo. Sapevo che sarebbe stato così e così è stato: cliché a valanga. La pornografia dell’omosessualità non sono i video su yougogoboy.fuck, è lo sfruttamento delle vecchie storie di bullismo a scuola, è il far diventare l’arte l’unica rivincita possibile di tutti i gay calpestati da piccoli. Quando invece la via dell’integrazione, se mai sia ancora necessaria, passa per le pari opportunità. Mi chiedo, solo io conosco gay felicissimi che hanno avuto una bella vita, pieni di amici, simpatici e che tutti adorano? Qui si raccontano solo cose vecchie e stranote. Serve ancora questa banalità sempliciotta – tagliata con l’accetta come i personaggi che vi recitano – sulla discriminazione? Sforzandomi di trovarci anche del buono, ci sono due perle che mi hanno tenuto in sala senza farmi scappare anzitempo:
- Quando i due migliori amici del protagonista si lasciano, uno dei due spiega così la loro separazione: “avevo finito le storie da raccontare e i miei trucchi di magia, avevo iniziato a stare zitto e lui ad annoiarsi, così se n’è andato“. Mi fa sempre male quando al cinema si ribadisce la natura frivola delle relazioni di coppia in modo così impeccabile e privo di ipocrisia.
- Il concetto Negri vs Froci: in un clima di periferia e di estrema povertà culturale un bambino di colore che viene preso in giro dai compagni col solito “sporco negro” può sempre tornare a casa e sentirsi protetto, capito e consolato perchè i suoi genitori condividono le medesime esperienze e caratteristiche, invece se un gay a scuola viene umiliato col classico “Frocio rotto in culo” non ha nessuno a casa che potrà capirlo davvero. E si sentirà solo.
Il film resta comunque sconsigliato, dovrebbero astenersi soprattutto i gay e i gay-friendly
Ex Libris: New York Public Library di Frederick Wiseman
Altro documentario, basta per l’amor di dio! Fortunatamente dura solo tre ore e mezza. Non ne capisco il senso, non ha nulla di artistico, è solo una sequenza senza filo conduttore degli interventi che personaggi di spicco di New York tengono all’interno della biblioteca comunale. Tutti belli e interessanti, certo, ma è questo un film? Patty Smith, Elvis Costello, le prove di danza, le lezioni di lettura ai ciechi, il kindergarden, gli incontri con gli scrittori e tra i colleghi del direttivo. Se lo avessero diviso in 8 puntate da 25 minuti potevano venderlo come trasmissione culturale su RAI educational, interessante ma dopo tre ore e mezza l’osso sacro chiede vendetta. L’opera soffre dello stesso problema del film con Sakamoto di cui sopra: gira a vuoto, non parte da nessuna parte e non arriva da nessuna parte, l’unico punto che accomuna tutti gli spezzoni sono le pareti della biblioteca. Wang Bing, il miglior documentarista del pianeta, gira film che ti lacerano e che arrivano a colpire più duro di qualsiasi pugno, li rende un’opera d’arte. Wiseman no.