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#VivaArteViva – La Cricchetta va in #BiennaleArte2017, seconda parte

di il 16/07/2017
 

Ho sempre preferito la parte della Biennale esposta all’Arsenale: rispetto a quella esposta ai Giardini, dove l’approccio sembra essere più istituzionale, formale, rigido; questa parte dell’evento è contraddistinta da un carattere più ludico e divertente, soprattutto se accogliamo il senso del termine “ludere” e cioè a dire: “giocare”, questa sezione offre il maggior numero di artisti e opere, che presentati nell’insieme, la rendono molto varia e curiosa.

Rileviamo la presenza di molti tessuti fin dalle prime sale (proposti in tutte le salse): gomitoli, cuscini, vestiti, arazzi, amache. Certamente il fil-rouge continua ad essere il tema dell’artigianato che deriva da paesi e zone sotto la soglia della a povertà, e al contempo si raccorda con l’etnicità: nel complesso mi pare esibito in maniera troppo massiccia e quasi soffocante.

Il primo artista che cattura il mio interesse è David Medalla, filippino, che ha costruito un’amaca enorme, in cui ognuno dei visitatori può cucire qualcosa che gli appartiene.

Nonostante le mie abilità nel taglio e cucito siamo assai limitate, decido di partecipare al progetto e lasciare il biglietto da visita della Cricchetta, e ho la conferma che il mio punto croce è decisamente scarso.

The Tyranny of Consciousness è un’opera video assai provocatoria di Charles Atlas, che accanto alla documentazione di una performance della leggendaria Lady Bunny, con parrucche e lustrini, esibisce una rappresentazione di vari tramonti che si chiudono a sipario con la voce della stessa Lady Bunny, che parla con lucidità assoluta della crisi politica americana, nella quale entrambi i partiti (sia i democratici, sia i repubblicani), perseguono una guerra in una parte diversa del mondo (Medio Oriente), con fini puramente economici, trasmettendo un messaggio che oltre ad accomunare due patiti “teoricamente” agli opposti, mette in evidenza che, di fronte alla belligeranza, non sono per nulla diversi tra loro, a conti fatti.

L’argomento della difficoltà economica che attraversano intere nazioni, e che viene spremuto ogni giorno dai quotidiani, affidato a una drag queen favolosa, costituisce una visone pregnante al tema dei migranti, creando in Lady Bunny un veicolo assi più efficiente nella razionalizzazione di una questione oramai stravista in questa Biennale.

Inizia a piovere e questo rende parecchio complicato il fluire tra le diverse stanze delle Corderie, ed è francamente disagevole una vernice della Biennale con condizioni meteo così sfavorevoli.

Non ho potuto evitare di chiedermi come mai le persone si commuovano davanti al film che viene proiettato alle ore 21:00, fino ad arrivare alle lacrime, eppure al contempo restano impassibili (talvolta pure peggio), davanti alla sofferenza dei migranti, degli emarginati, dei rifugiati?

Da questo concetto parte il lavoro Love Story di Candice Breitz, composto in totale da 7 video, dei quali 6 rappresentano l’intervista di sei rifugiati per diversi motivi: sessuali, politici e religiosi; le stesse interviste, sezionate e ridotte vengono interpretate in schermi giganti da Alec Baldwin e Julianne Moore, con l’intento da parte dell’artista sudafricana di far evidenziare quanto l’ipervisibilità degli interpreti giudichi il messaggio. Confesso che l’intento è riuscito perfettamente in quanto le due sale, divise, avevano un numero di spettatori assolutamente diverso (con una percentuale di affluenza schiacciante a favore degli schermi che vedevano coinvolti i divi). È quasi incredibile come un esperimento così banale sia così convincente ed espressivo: la stessa frase, pronunciata da una celebrità, trova più ascolto, suscita più interesse, crea più empatia ed immedesimazione, della medesima frase pronunciata da una persona qualunque.

Il Padiglione Italia è davvero notevole, soprattutto, per quanto mi riguarda, la parte dedicata a Roberto Cuoghi con la sua opera Imitatio Christi.

L’idea del cristo (così come lo conosciamo iconograficamente), composto in un materiale gelatinoso simile al silicone, viene prodotto in numerose quantità davanti allo spettatore, ed è davanti allo spettatore che queste stesse creazioni vengono inserite in un tunnel di plastica trasparente con diverse camere. Le creazioni vengono sottoposte a temperature diversa, per mostrare il livello di ammuffimento dei cristi precedentemente prodotti.

L’effetto dissacrante di tutta la performance è perfetto: l’aria divina, ovvero mistica, mischiata alla sensazione di fabbrica crea un effetto quasi blasfemo potentissimo. La decomposizione totale dei corpi avviene col sale, generando così brandelli di corpi che vengono infine esposti come quadri.

Veramente toccante, ho rifatto tutto il percorso, tanto mi ha emozionato da questo progetto.

Bellissima la simbologia della fine del tunnel, che invece che trovare la luce, come proverbialmente si dice, si trova la presenza soltanto di una cella frigorifera che conserva i pezzi di cristo sopravvissuti alla decomposizione.

Torniamo ai video con l’ottimo Padiglione della Nuova Zelanda con un video di Lisa Reihana che si sviluppa in orizzontale in uno schermo lungo 40 metri: la storia sfida la linearità, non è un evolversi di immagini ma uno srotolarsi di situazioni che, stando seduto religiosamente al proprio posto, prima o poi si pongono alla vista dello spettatore, completando l’insieme (tuttavia, la tentazione di cercare di inglobare tutte le immagini anzitempo, per capire la intera storia è sempre forte, e potrebbe essere letto come un invito ad apprezzare con la dovuta calma l’istallazione, anziché affrettarsi a trovare un filo conduttore).

Rappresenta le esplorazioni del capitano Cook compiute agli inizi dell’Ottocento, il suo incontro con gli indigeni, e le tradizioni di quest’ultimi.

Dura quasi un’ora, quindi comporta una certa fatica vederlo per intero, però merita la più completa attenzione.

Siamo arrivati nel bel mezzo dell’inaugurazione del padiglione della Cina, nel bel mezzo della festa, un tripudio di suoni, voci, immagini, con la rappresentazione dell’antico teatro e che combinava suoni assieme ad animazioni, tutte dal vivo.

Emozionante davvero, i colori e le musiche ipnotizzanti hanno fatto di questo uno dei miei padiglioni preferiti in assoluto.

Altrettanto affascinante il padiglione del Libano, in Arsenale Nord (che rappresenta un posto molto accessibile durante la vernice perché una barca viene appositamente destinata a portare i visitatori dall’altra parte della riva).

Un totem moderno emette suoni e voci, alternandoli a canti, talvolta nel completo buio della stanza, talvolta con luci su uno schermo. Le luci rappresentano scritte tradizionali. Zad Moultaka è l’artista che rappresenta il paese, anche questa volta mi sono concesso due giri, perché l’insieme è caratterizzato sia da un aspetto elettrizzante sia romantico.

Quante cose ci sarebbero ancora da scrivere, quando si visita la Biennale ci si sente quasi forzati ad avere un’opinione su ogni cosa che si vede. Con gli anni ho imparato a far “macerare” un po’ le opere viste di primo impatto, ho imparato a pensarci e a riflettere con più intensità, cercando di rivederle in seguito con più calma, attenzione e precisione durante l’estate. Perché alla Biennale si torna, e si ritorna.

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