- Devo ringraziarti per la zuppa
- Non è il caso, dovevo farla comunque
- Sai che è davvero strano? Ne avevo voglia proprio quel giorno
- Sul serio? Che coincidenza
- Già, è incredibile
Mai come durante la visione di questo film ho avuto il sincero desiderio di abbandonare la comoda postazione davanti allo schermo e mettermi a fare altro. Non che fossi annoiata, delusa o disinteressata a quello cui stavo assistendo, nient’affatto. Per me si trattava semplicemente di una questione di delicatezza e pudore nei confronti del signor Chow e della signora Chan, un accogliere la loro muta supplica ad essere lasciati soli, finalmente, ad andarsene senza sbattere la porta, per cortesia. Ma la mia timida discrezione niente ha potuto contro il languore di una sospirante nenia cubana, che mi ha trascinata nel codazzo guardone e malignante composto da coinquilini, vicini di casa, datori di lavoro, amici alcolizzati, tutti appostati con l’orecchio teso dietro allo stipite. Je m’accuse: perdonatemi, signora Chan e signor Chow, tra quelli là c’ero anch’io.
“In the mood for love” è un buco della serratura che lascia sbirciare dentro alla nuvola di vapore di un sentimento soffocato dalla sua cornice. All’interno della cornice l’elegantissima signora Chan si tampona graziosamente la fronte imperlata dalla densa umidità di una cucina ed il signor Chow fuma lentamente una sigaretta guardando al di là di una finestra appannata. La loro preoccupazione: non essere come loro. Loro, i rispettivi coniugi che da compagni di vita sono diventati fantasmi del quotidiano, del tutto assenti ma così sfacciatamente presenti da diventare il loro sanguigno assunto: non essere come loro. Loro, fuggiti insieme dal posto sicuro lasciando in dono ai monconi della coppia l’amarezza dell’abbandono e il dolore del tradimento.
Un dolore dapprima vago, inconfessato, intangibile, che viene veicolato nel mondo del reale da crudeli minuzie: una cravatta portata dall’estero, una borsa proprio di quel modello, il timbro di una cartolina postale hanno l’ardire di rivelare ciò che per la signora Chan e il signor Chow resta impronunciabile. Un dolore che una volta manifestatosi ha bisogno di allenamento, come tutto d’altronde. Infatti, quando si è preparati, lo strappo fa meno male: se non è possibile evitare la lacerazione profonda, perché non addomesticarla con un caparbio esercizio? I coniugi abbandonati cominciano così un raffinato gioco di ruoli, giustificato dal bisogno di comprendere come tutto sia successo, un gioco che diventa una sofisticata scusa per provare sulla pelle, ma solo di cauto riflesso, ciò che ha colpito loro, tua moglie e mio marito, tuo marito e mia moglie, loro, i fantasmi.
La dolce terapia d’urto messa in atto dai due vicini di casa cementifica la convincente illusione di aver rispettato l’assunto: non essere come loro. Come accorti funamboli non si concedono alcun passo falso: tra il signor Chow e la signora Channon c’è niente: niente da rimproverare, niente di inappropriato, niente che faccia perdere l’equilibrio. Un niente consumato spalla a spalla contro lo stesso muro, nello scroscio di un acquazzone, nel rimestare una zuppa di semi di sesamo, nell’attesa di una telefonata, nel correggere un testo, nell’incrociarsi salendo e scendendo le solite scale scrostate. Un niente così forte da diventare insopportabile.
E a noi, che sbirciamo furtivi da dietro la porta, viene consegnato un segreto da portare al tempio: a vivere di assunti, si muore.