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#Venezia76 – Un incidente prevedibile, la vérité di Hirokazu Kore’eda

di il 29/08/2019
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Son tutti li, schierati sui poster del lungomare del Lido di Venezia, a testa bassa e muscoli tesi. Gli occhi del pubblico adorante puntano il fuoriclasse Kore’eda, testa di serie numero uno: a lui la responsabilità di fissare quest’anno il metro di misura con cui valutare la prestazione di tutti gli altri concorrenti. L’eco del colpo di pistola non ha nemmeno il tempo di rimbalzare sulle mura imbottite della Sala Darsena che il Campione scivola tra le accoglienti braccia di una vetusta Catherine Deneuve, incrocia le gambe e cade rovinosamente a terra. Serpeggia voce che l’abbia fatto apposta, alcuni giurano di averlo visto annodarsi assieme i lacci delle scarpe poco prima di partire, conscio della disfatta, pur di assecondare l’Aura della Divina. Non c’è nulla di confermato, ovviamente, saranno le solite malelingue. Il pubblico sbalordito gira la testa ovunque in cerca di risposte ma non ne trova. Ammutolito non può che assaporare l’amaro intenso di una falsa partenza e del favorito li a terra, con le ginocchia sbucciate e gli occhi lucidi per la figuraccia o per l’emozione, è difficile a dirsi. Gli altri concorrenti fanno quello che possono, alcuni provano con le teste mozzate e le urla, altri con la lotta all’arretratezza, altri ancora con bonari sorrisi di circostanza, rubati agli spot della Barilla, ma niente riesce a distrarre il pubblico da quell’incidente, nè tanto-meno a consolarlo. L’arbitro, questa volta, dovrà chiudere non uno ma due occhi e mezzo per non far scendere l’imperatore dal trono e salvare così l’appeal della gara.

E’ il solito Kore’eda” mi arriva come veleno dal fianco, “ingabbiato nei suoi piccoli/grandi drammi familiari a fortune alterne“. Non ne sarei così convinto: questa volta il regista del capolavoro Nobody Knows cerca anche la battuta, trovandola a fatica. Punge giusto un paio di volte e cade invece molto più spesso in un umorismo terribilmente senile, telefonato, per bene, pulito, stereotipato, da salotto in velluto scuro del club degli accademici annoiati in pensione. È un film vecchio, fatto da vecchi e per vecchi. In sala sento qualche risata a denti stretti e molti sbadigli, è una risposta divisa per fasce d’età, ma c’è una cosa che unisce tutti: il placido orgoglio di vedere ancora una volta quell’anziana, famosissima attrice, protagonista di un grande film in un grande concorso internazionale, in perfetta forma e per nulla intimorita dall’età. E’ lei, che interpreta banalmente l’immaginario collettivo di sè stessa, al limite del feticcio, l’unico motivo per non preferire un caffè corretto Cynar al bar dopo una mezz’ora di proiezione. Lei è li, non tanto al centro dello schermo quanto nei cuori palpitanti degli appassionati che guardano scorrere le immagini con gli occhi dell’amore, innamorandosi perdutamente ancora una volta di un idolo vivente. Lo dico forte di una performance non certo memorabile, perché l’ingombro non è tanto lei come attrice quanto quello che lei suscita nel cuore dei suoi fan. È un concetto completamente slegato dalla sua prova o della qualità della pellicola. Lei c’è, pesa e rimane eterna per chi sogna che lo sia e per chi vuole fare in modo che lo sia, sapendo di vendere meglio il film.

L’opera in sé è ben poca cosa, non ha grandi idee nè un’estetica memorabile. Il punto di forza, ovvero le dinamiche di relazione, sono lineari, prevedibili e forse anche necessarie al contenimento di una presenza così autorevole. Si bazzica tra la noia e il già visto. L’happy ending finale, più leggero e patinato del più bieco dei romanzi d’amore da spiaggia, mi ha fatto soffrire molto.

Penso ai tanti a cui il solo sentir nominare il nome di Catherine Deneuve fa ancora tremare le gambe e mi rallegro per loro, un po’ li invidio, ma il mio cuore è vicino a chi non ha nessuna particolare ammirazione per la famosa diva francese. Non posso che chiedermi come questi ultimi abbiano sopportato il fatto che uno dei più grandi registi al mondo sia crollato pavidamente ai piedi della Dea, a suon di smancerie preconfezionate, creando un prodotto popolare, da supermercato, senza opporre resistenza, senza dare il taglio sanguigno, verace, doloroso ed inconfondibile che lo ha sempre fatto amare.

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