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#EFF2018- Seconda serata dell’Edera film festival, Estiu 1993 di Carla Simòn

di il 24/09/2018
 

Mi sono dovuta ricredere: il tanto (da me) vituperato totem salta-code serve davvero, è questo che penso mentre rivolgo un cenno di scuse allo scatolone metallico, vedendolo assolvere così diligentemente il compito di sfoltire l’impaziente numero di persone in piedi davanti alla cassa del cinemino nella seconda serata dell’Edera Film Festival.
Con al collo la mia licenza di scrivere #001 mi dirigo verso la sala 1, questa volta senza tentennamenti, visto che è l’unica attiva: in programma red carpet e a seguire i lungometraggi. Mi siedo e mi metto alla curiosa ricerca del rotolo di velluto rosso che nel mio immaginario dovrebbe accompagnare l’elegante falcata degli ospiti internazionali sotto i riflettori glitterati, ma non lo trovo. L’inglesismo da grande evento non toglie nulla all’atmosfera casereccia, con tavoli in legno grezzo e tovagliette di carta a quadretti: gli ospiti introdotti dalla presentatrice emergono dalla platea con una timida alzata di mano o, al più, vengono invitati a mostrarsi nella loro interezza sul palco.
Estiu 1993” di Carla Simón, proposto agli Oscar 2018 in rappresentanza della Spagna e miglior opera prima al Festival di Berlino 2017 è un lungometraggio che ha già i suoi stemmi da lustrare, di ispirazione autobiografica e vietato agli adulti con più di otto anni. Al centro: il vuoto inspiegabile che cala d’improvviso sulla vita di Frida, a sei anni orfana di entrambi i genitori, che per volontà dalla madre viene allontanata dall’affetto soffocante dei nonni e dal disordine della grande città per essere affidata agli zii materni. Lo zio, bel mediterraneo, e la zia, madre premurosa ma dal carattere spigoloso, conducono una vita naif nella campagna catalana insieme alla loro bimba di qualche anno più piccola di Frida.
Sempre al centro, ma sempre sottopelle: l’infezione. Quella che ha ucciso i genitori di Frida e che avvolge la bambina come uno spettro, accentuandone l’estraneità al nuovo ambiente, rendendola colpevole anche per una sbucciatura al ginocchio. Oltre a questo, il contagio che rende difficile il rapporto con la zia, la nuova mamma, minacciata dalla contaminazione che Frida porta nel piccolo mondo bucolico dall’inquinata Barcellona, con i suoi capricci senza lacrime e la sua irriverente indolenza che comincia a sedurre anche la tenera cuginetta.
D’altra parte Frida non può sapere quello le è successo e non può saperlo perché lo strappo le è stato imposto: un giorno viveva venerata dai nonni e dalla tata nana e il giorno dopo in compagnia di estranei che le fanno apparecchiare la tavola. Non è la realtà che ha scelto nei suoi giochi, unici affidabili strumenti di conoscenza, dove è lei a stabilire i ruoli, a decidere la causa degli eventi e a verificarne l’effetto e, per il puro amore della scoperta, passi pure se in qualche avventura si rischia di uccidere la dolce sorellina acquisita.
Sullo sfondo: la ricerca dell’affetto perduto, che Frida crede di poter recuperare solo nella civilizzata Barcellona, nella casa “di prima”, ancora vuota. Il ritorno all’amore diventa l’ossessione della piccola, che si aggrappa con tutte le sue forze alla macchina dei nonni, seguendola fin giù dalla strada sterrata, tenta coraggiose fughe notturne e conduce personali dialoghi con la statua della Madonna, alla quale offre le sigarette perché le porti alla mamma “di prima”.
Il finale si scioglie senza sorprese, affidando al tempo il compito di dipanare l’intrico di sentimenti formatosi nella nuova famiglia, spazzato via da un eloquente pianto liberatorio.
Do’ un’occhiata al programma e valuto se fermarmi in sala per il secondo lungometraggio, ma l’idea di spostarmi da quella casa colonica dove anche i drammi sono a misura di bambina mi stanca enormemente. Mi alzo e mi meraviglio di quanto alti siano gli altri spettatori.

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