Com’era piuttosto prevedibile, la prima giornata della vernice della Biennale è stata caratterizzata dalla protesta organizzata contro l’intervento di Israele nella striscia di Gaza, dopo l’attentato terroristico del 7 ottobre.
Oltre alla chiusura temporanea del padiglione israeliano, la protesta, organizzata piuttosto bene, a favore del popolo palestinese. Molto composta, non c’è stata alcuna frizione col resto del pubblico, senza dubbio una cosa progettata da tempo e con precisione, considerato il fatto che serviva un invito per entrare in questi giorni.
Noto una moltitudine di persone fin dall’apertura, sensazione che non mi lascia mai, visto le numerose code che ho dovuto fare per accedere ai padiglioni, infatti nei giorni verrà denominata la vernice della file, presenti anche nei padiglioni più reconditi.
Doppia coda per visitare il padiglione della Germania (all’esterno e all’interno) per un totale di 130 minuti di attesa. Ma ne è valsa la pena. Thresholds è il titolo della mostra, in cui partecipano più artisti. Sono rimasto colpito dalla potenza della performance di Ersan Mondtag, aiutato da cinque attori. Riproduce in una torre costruita all’interno del padiglione, ricoperta da terra fatta arrivare dall’Anatolia, frammenti di vita del nonno, immigrato dalla Turchia, che lavorò in una fabbrica di Eternet, cosa che gli provocò il tumore che lo uccise. Bellissima la ricostruzione, molto potente e tedesca, senza fronzoli o lacrimosi rendez vous, ma solo la vita e la morte rappresentate e cantate.
Il padiglione della Polonia ospita un gruppo di artisti ucraino che ha un’idea piuttosto originale per continuare a parlare del conflitto tra Ucraina e Russia, argomento che probabilmente interessa sempre meno persone.
Repeat After Me propone una serie di vittime della guerra, ognuna di esse racconta particolari di attacchi che hanno ricevuto e mimano i suoni delle armi usate, creando un karaoke con i visitatori, che devono rispondere facendo il medesimo suono. Divertente e terribile allo stesso tempo.
Nel padiglione austriaco un’altra critica al sistema politico russo (la Russia tra l’altro non è presente neppure quest’anno, nel suo padiglione c’è la Bolivia) dall’artista Anna Jermolaewa. Ho avuto la fortuna di vedere la performance nella sua opera Rehersal for Swan Lake, perché ad accompagnare il suo video lungo più di un’ora su delle prove di ballerine ucraine nella messa in scena dell’opera, Orksana Serheieva, ballerina ucraina, ha danzato dal vivo.
Non sapevo che durante i momenti di crisi dell’apparato russo in televisione venisse trasmesso non stop Il Lago Dei Cigni, anche per dei giorni. Non certo un’arma di distrazione di massa direi.
Il tema dello straniero, del migrante è l’argomento su cui si basa questa edizione e io mi dico, ok, l’arte è spesso scollata dalla realtà, ma come mai in un mondo in cui i governi sono sempre più di destra e i sovranismi si moltiplicano, il concetto di straniero ha ancora accezione così positiva?
Il Padiglione Egitto propone Wael Shawky con Drama 1882
Splendido video in cui viene narrata una vicenda svoltasi durante il periodo delle agitazioni antiimperialiste contro la Gran Bretagna (dal 1879 al 1882 circa). Un singolo evento (che l’artista non spiega se sia inventato o realmente accaduto), vale a dire uno screzio tra un egiziano e un maltese, fa precipitare una situazione già tesa.
Bellissima la messa in scena, con impianto operistico, con musica bellissima e ingegnose coreografie che creano movimenti quasi robotici tra i personaggi. Ipnotizzante e senza dubbio la cosa che mi ha coinvolto maggiormente.
L’artista ripropone un fatto del passato per parlare del presente, fonde storia e invenzione per descrivere la sofferenza di un popolo che rassomiglia molto a quella che so vede oggigiorno in moltissime zone del pianeta.
Estremamente colto il padiglione della Gran Bretagna, Listening All Night To The Rain affidato a John Akomfrah. Una serie di video assemblati e divisi in canti in cui l’artista riproduce un collage di cose e situazioni della propria esistenza, da video contemporanei a rappresentazioni di quadri, da documenti datati a istantanee del suo passato. Tutto questo in un contesto in cui lo scrosciare dell’acqua e il buio creano un ambiente davvero unico ed impattante. Sicuramente il padiglione che più mi ha colpito a livello emotivo, anche perché adoro le operazioni di memorabilia.
Sorprendente il Padiglione degli Stati Uniti, che di solito snobbo parecchio, mi è piaciuto proprio. Affidato all’artista Jeffrey Gibson, stacca dai soliti meccanismi della cultura black, talvolta troppo autoreferenziali, e compie un lavoro basandosi su tradizioni di popolazioni indigene e i loro costumi. Diventa quasi pop, togliendo quell’aura di difficile comprensione che talvolta li contraddistingue. Ecco quindi sculture di perline che hanno un impatto visivo potente, oltre che una storia forte sul matriarcato delle popolazioni indigene.
La caccia al ragno rosso, un tipo di tarantola che cresce in Martinica, è alla base del Padiglione Francia di questa edizione della Biennale. Attorno alle poesie di Julien Creuzet sono ricreate circostanze che nascono durante la ricerca di questa ragno. L’artista designa questa caccia come una completa unione di tutti i sensi: il corpo diventa tutt’uno con l’ambiente sviluppando ogni possibilità, oltre che la vista, per avvertire la presenza del ragno. Ci sono quindi gli odori e la musica all’interno del padiglione che danno allo spettatore la possibilità di calarsi nella stessa sensazione.