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#Cannes2018 – 8 giorni per diventare il miglior amico di Cate Blanchett, parte 1

di il 13/05/2018
 

Nelle settimane scorse, mentre mi preparavo alla mia prima volta da inviato sulla Croisette, non facevo altro che leggere che la cosa peggiore che poteva succedere sarebbe stata quella di ricevere l’accredito stampa di colore giallo, ultimo in ordine di priorità di accesso alle sale: “Non si riesce ad entrare da nessuna parte!”, testuali parole riportate in più di qualche sito che dava informazioni su come sopravvivere al Festival di Cannes. Sarà vero? E se poi me torno in Italia con la coda tra le gambe senza aver visto nemmeno un film? O magari sono i soliti allarmisti, complottisti, ansiosi, ottusi, insicuri da quattro soldi, nascosti dietro il perbenismo dello schermo sterilizzato gestito da Dio Google? Rami secchi credibili quanto uno stercorario che ti strizza l’occhio dicendoti che in realtà davanti c’ha un biglia colorata?
Ora c’è la Cricchetta del cinemino ad osservare, con le sue scarpe grosse sempre sporche di fango non si trincea mai dietro altro se non a sè stessa. Tremate gente:

Angy Love™

Angy Love™

Ovviamente la prima cosa che controllo quando la signorina molto gentile mi consegna il tanto agognato pass è ovviamente il colore: più giallo di un pulcino.
La delusione viene subito alleviata dalla bag della manifestazione in regalo: bellissima, in jeans, ricca, con tanto di catalogo e gadget vari. Dimenticavo di specificare che per pass, borsa e tutti i servizi del festival (compreso il trasporto dall’aeroporto all’hotel), non ho sganciato neppure un euro.
Nemmeno uno.
Cosa impossibile in Italia, dove anche per il festival più bislacco ti chiedono un contributo per spese di segreteria.

Nonostante sia un sabato affollato, dentro il Palais de Festival è tutto molto composto, il caffè viene offerto dappertutto (la lunga mano di Nespresso) e sono tutti davvero gentili.

Scopro subito una sala che fa per me, la Soixantieme, è piuttosto defilata e con un programma vario dove non c’è ressa per i posti. Vedo così  GONGJAK di Yoon Jong Bin. E’ un film coreano riguardante le elezioni avvenute agli inizi degli anni novanta in Corea del Sud. Anche se di ottima fattura, la storia di spie è troppo complicata, soprattutto per chi come me non conosce perfettamente quella delle due Coree. Puzza un po’ di propaganda su quanto sia cattiva la Corea del Nord, anche se i personaggi sono profondi. Verso la fine il regista si abbandona a del sentimentalismo davvero fuori luogo.

Parecchio brutto, ma parecchio proprio è LES FILLES DU SOLEIL di Eva Husson. Ambientato in Kurdistan, racconta una storia molto bella di vendette, guerre e violenze in una legione di guerrigliere donne, ex prigioniere dei nemici ed ex schiave del sesso degli stessi. Purtroppo la sceneggiatura crea un impatto emotivo che, invece di rafforzare il film, lo rende banale e a volte patetico. Una regia più fredda e documentaristica avrebbe senza dubbio giovato, invece diventa la solita pellicola sulla frammentazione dei popoli del Medio Oriente, dove pare ci siano i solo cattivi da una parte e i buoni dall’altra. Tra l’altro, io non sono un fanatico della filologia, ma una guerrigliera col mascara, suvvia…

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