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#Venezia73: I Bei Giorni di Aranjuez di Wim Wenders

di il 03/09/2016
 

Da questo adattamento dell’opera di Peter Handke (titolo originale: Die schönen Tage von Aranjuez. Ein Sommerdialog), pubblicato in Italia da Quodlibet, con il titolo “I Bei Giorni di Aranjuez”, non ci si sente spettatori, ma quasi voyeuristi. Siamo davanti a una conversazione molto intima, che spazia dal sesso ai luoghi geografici, e questo dialogo tra una donna, che non si ritrae nell’esternare le sue posizioni sulla passione, e un uomo che non rinuncia a farle domanda dopo domanda, in maniera incalzante.

Wim Wenders si affida ancora una volta, dopo il documentario dedicato a Pina Bausch, “Pina” (2011), all’uso del 3-D, e collabora ancora una volta con Peter Handke. Dalla sua opera aveva già tratto Il Cielo Sopra Berlino (1987). Questa volta indossiamo gli occhiali 3-D perché nelle sue intenzioni vorrebbe offrirci una vista di Parigi sotto la luce dell’estate, per farci sentire partecipi del dialogo, e probabilmente per rendere il più teatrale possibile l’esperienza dello spettatore in sala. L’insieme coinvolge pochi soggetti: lo scrittore del dialogo, che risiede in una villetta di campagna (villetta che richiama la casa dove si svolge quasi tutto il film “La Collezionista”, film del 1967 di Eric Rohmer, sembra quasi avesse voluto riproporre la stessa atmosfera), i due personaggi che siedono sotto una veranda a disquisire fino all’ultimo minuto del film, un giardiniere (Peter Handke) che entra giusto per dare una sistemata a una pianta rampicante, e Nick Cave, che si materializza per suonare un “Into my Arms” al pianoforte, e ci regala il momento migliore del film.

 

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Wim Wenders, nei primi minuti c’invita immediatamente a comprendere che questa opera, pur essendo fuori da una cornice storica, non risiede fuori dalla realtà (e proprio in quel momento la metà della Sala Darsena del Lido si è svuotata, peggio per loro, si sono persi Nick Cave). La donna viene interrogata sulla sua prima esperienza sessuale, ma la sua risposta è labirintica, quasi come se gliel’avesse messa in bocca Patricia Highsmith quando parla delle sue donne nella raccolta “Piccoli Racconti di Misoginia” (del 1974, edito da Bompiani); la donna sostiene che il sesso è trasformazione, è un dolce spavento, paura, terrore. Lui le chiede perché. Lei argomenta ancora la sua tesi che vuole che nel momento nel quale due corpi si accoppiano, avviene ciò che lei descrive come “la discesa del silenzio”, quella che lei chiama, “la quiete supplementare”, e grazie a questo, si acquisisce profondità. Racconta di un amore, di una relazione nella quale entrambi sono rimasti assieme finché non c’è stato più un “noi”, ma solo “l’altro” (e qui Umberto Galimberti sul “noi” non transige, e lo reputa “l’abbraccio mortale dell’individualità”). Per la donna il sesso rappresenta la festa dei corpi, ma preme sul tasto che si tratta della più silenziosa delle feste. Lui preme ancora, la costringe a scavare più in fondo. Lei quindi, in maniera quasi disarmante pronuncia il più sdegnoso manifesto antifemminista: lei avverte che agli uomini manchi lo sguardo da cacciatori, lo sguardo angosciato. Cosa c’è al mondo di più caloroso e accogliente delle forme femminili? Deve tornare la monarchia delle donne che appartengono agli uomini, e guai a pretendere di voler dominarle. Si tratta di una monarchia non costituzionale, non governativa, ma una monarchia che si basa sul principio del desiderio. Esiste la donna che vive la propria vita senza essere o sentirsi la donna di un uomo? E con questo interrogativo si allontana la macchina da presa, lasciandoci un po’ confusi: abbiamo appena visto un capolavoro, oppure quell’ammasso di concetti astratti vale davvero un film?

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