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#Venezia73 – il film di apertura, LA LA LAND di Damien Chazelle

di il 27/01/2017
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Joh Legend

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La prima impressione che si può elaborare di un film che introduce elementi quali “scene da musical”, un’eccessiva e ostentata attenzione alla perfezione cromatica e infine una ricerca maniacale della simmetria di ogni fotogramma e inquadratura, potrebbe essere: “questo film non fa per me”. Damien Chazelle si guarda bene dal proporre un banale e piatto “musical”, oppure una storia d’amore e inseguimento dei sogni, in quella “landa” che è Los Angeles. Mi chiedo dunque, perché catalogare “LA LA LAND” come un musical? Le coreografie non sono particolarmente ricercate. E questo è un dato di fatto. Le più importanti scene di discussione non usano l’espediente del canto, LA LA LAND è un film che si affida a più registri, e proprio per questo non potremmo mai archiviarlo assieme a Chicago di Rob Marshall, Dreamgirls di Bill Condon e spingendoci un po’ più in là, persino Cry Baby di John Waters e infineHairspray: Grasso è Bello di Adam Shankman, tutti lungometraggi che seguono rigorosamente le regole del “musical”, inteso come quella espressione cinematografica che sottrae quasi del tutto il dialogo. Fermo restando che il miglior musical degli ultimi vent’anni rimane comunque Romance & Cigarettes di John Turturro.
 
Ma torniamo a LA LA LAND: Dopo Whiplash, è evidente che il regista Damien Chazelle ha un debole per la musica, come se fosse un elemento che -all’interno della narrativa- lo aiutasse a catalizzare molti dei sentimenti, delle paure, delle frustrazioni dei suoi personaggi. Il film si apre con una scena di caos quotidiano, una colonna in una tangenziale nella quale possiamo rivederci ognuno di noi, e all’improvviso, il disagio esplode in qualcosa di catartico, balletti sulle automobili, un brano di apertura che serve da cornice all’incontro tra Emma Stone (Mia Dolan), aspirante attrice, e Ryan Gosling (Sebastian), un appassionato di jazz (vecchio stampo), che vorrebbe essere un rivoluzionario, ma rimane saldamente tradizionalista. La loro storia d’amore è contraddistinta dagli ostacoli, dalla diffidenza, non è amore a prima vista, e neppure a seconda vista. Chazelle decide di farli innamorare nella maniera meno ortodossa, e a noi piace che lui sappia scansare i clichés in maniera abbastanza scaltra. Già i loro personaggi rappresentano due gocce d’acqua in un oceano di esseri umani che condividono esattamente lo stesso sogno: il successo a Hollywood. E’ dunque lodevole che la loro unione sia un po’ meno convenzionale. Si svolge nell’arco di diverse stagioni (di diversi anni), ed è plausibile che entrambi entrino in sintonia come due complici di fallimenti. Tuttavia, appena s’intravede l’apertura di una finestra di stabilità, e dunque notorietà per lui, e in seguito per lei, accade quasi l’inevitabile. Gli allontanamenti, gli impegni, lo sfilacciamento, eppure la promessa che si ameranno per sempre.
 
Il finale, che strizza l’occhio (e confesso, in maniera un po’ spiazzante), a un “Sliding Doors” onirico, è uno di quei colpi di violenza subdola che già avevamo visto in Whiplash. Chazelle non ha demorso, non si è rabbonito, questo film non è patinato, non è “perfettino”, ci sono gli stessi colpi bassi e la rabbia dell’insegnante Terence Fletcher di Whiplash, ma offerti attraverso abiti glamour dai colori pastello, da un sofisticato ballo del tip-tap, da qualche richiamo alle leggende del cinema e della musica, e infine dalle lacrime che ho lasciato in sala a fine visione.
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