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#Venezia77 – (Ma ma he qi tian de shi jian) Mama di Li Dongmei, ma perché? (Cit.)

di il 08/09/2020
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Gli addetti ai lavori lo sanno bene, da quando è terminata la direzione artistica della Biennale Cinema di Marco Müller, oramai nel 2011, e dopo le polemiche dei troppi che allora non erano in grado di capire che in quegli anni il cinema orientale vinceva i festival non per congiure o corruzione ma perché era l’unico ad essere vivo, la cinematografia asiatica proiettata al Lido è zoppa, mediamente scadente, anche quando su grande schermo porta i grandi, vecchi, mostri sacri del passato. Il nuovo che avanza passa per altri canali, primo fra tutti il Far East Film Festival di Udine.

Io però non demordo, forse lo vorrei, ma non ci riesco: ogni volta che leggo sul programma un titolo proveniente da Cina, Giappone, Corea o Filippine mi si illuminano gli occhi e si accende una parte del cervello normalmente sopita. Una sorta di ganglio eccitante frutto forse della malinconia dei più bei momenti cinematografici della mia vita. È nel cinema asiatico che sono nato e che ho formato il mio gusto per l’arte. È per questo che sono qui, ora.

Purtroppo Mama non è solo un film mal riuscito, tutt’altro, è terribile, ma non è una delusione, me l’aspettavo: lunghi silenzi, spazi aperti, soprattutto mentali o spirituali, tocco vellutato, immagini statiche, ritmo lento. Non dico che non esistano capolavori con queste caratteristiche, ma urge rendersi conto che si tratta di un cliché. È necessario che se ne accorgano i registi in primis: vi prego, toglietevi dalla testa che se non rispettate l’annoso luogo comune non selezioneranno il vostro film in occidente. La chiave, nell’arte, è sorprendere.

Evidentemente Li Dongmei non è di questo parere, si adagia placida, va sul sicuro e crea cinema prevedibile, noiosissimo e cinematograficamente rassicurante, senza idee, trama né, praticamente, dialoghi. L’occhio della telecamera inquadra per tutto il minutaggio la vita quotidiana di un villaggio di montagna. Mi perdoni la bassezza ma la quotidianità la conosco anche troppo bene, non cerco il mondo dei sogni ai festival cinematografici per ricordarmi la piatta regolarità di ogni giorno. Qual è la novità, dov’è il gesto artistico? Dov’è la forza? Perché rovesciare un secchio vuoto in faccia agli spettatori?

Vabbè, passiamo alla review del film: pseudo poverty porn cinese in cui non succede nulla. Fine.

Ora la trama, se così si può chiamare: bambini camminano per andare a scuola, una mamma prepara da mangiare, una donna va a trovare i parenti, un’altra fa la spesa. Poi lunghe inquadrature statiche di foglie al vento, di bambini che dormono, di un anziano che lavora sull’orto, di una donna incinta che risponde al telefono. Fin qui son passati 45 minuti. Ne mancano ancora circa 80.
Si riparte con un’anziana che si sventola col ventaglio, ragazzi che riposano, una gallina che cammina nella terra battuta della cucina, un anziano che si allaccia la camicia ma (colpo di scena!) salta un bottone, un uomo si lava la faccia e fa colazione, un anziano cammina con una pala e saluta gli amici seduti sugli scalini, un contadino dà da mangiare ai maiali e poi zappa sui campi, una bambina raccoglie i fiori cresciuti sotto all’albero, studenti in classe cantano una filastrocca di partito, qualcuno armeggia in officina, una moglie lavora a maglia e poi… e poi per l’amor di Dio me ne sono andato.

Cara mia, vuoi far vedere in maniera plasticosa e ostinata la quotidianità di un contadino cinese senza aggiungere niente? Nessuna lettera dell’alfabeto cinematografico, nessuna idea, nessuna trama, nessuna immagine coinvolgente e nessuna prova di recitazione? Inquadrando di spalle, per minuti interi, gente che cammina? Beh non mi avrai, sento molto più forte il richiamo dello spritz al Cynar.

Il terzo mondo lo conosco benissimo, e al cinema è già stato rappresentato in maniera esemplare ed avvincente miriadi di volte, quel villaggio non ha niente da mostrare e quella gente niente da dire, non hai aggiunto nulla a quanto anche il più blando immaginari del più infimo degli ignoranti che conoscono a malapena il dialetto veneto immaginano. Se volevi solo documentare, gira un documentario, non questa fiction soporifera che non prova nemmeno ad indorare la pillola con una fotografia di lusso che potesse aiutare a tenere gli occhi aperti.

Con tutti i capolavori che sforna ogni anno il cinema cinese, mettere in vetrina un’opera cosi insignificante vuol dire fomentare le occhiatacce e rinforzare il pregiudizio sul cinema asiatico.

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