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#Venezia76 – Il diario di un amico veneziano al Lido, parte 1

di il 30/08/2019
 

Oggi sono salito sul vaporetto mentre era già in procinto di staccarsi dall’imbarcadero solo grazie alla chiave che a Venezia apre tutte le porte: correre urlando “Capo! Capo!“. Fortunatamente l’uomo al timone mi ha sentito e non sono dovuto ricorrere all’Arma Definitiva ovvero a quella colorita manciata di epiteti fortemente legati al territorio che hanno ormai perso ogni sfumatura volgare come, per dirne uno, cancaro. Si badi bene che va utilizzata solo in casi estremi perchè garantisce di salire sul battello con la stessa probabilità di fare a spintoni col marinaio addetto alla fune.

Comincio dall’inizio. Il primo giorno c’è stato il capitombolo di Hirokazu Kore-eda, regista di The Truth, film che sulla carta era l’ovvio vincitore del concorso, affossato da troppa voglia di far eccitare i fan di Catherine Deneuve, protagonista indiscussa del tappeto rosso. Però, più passano i giorni e più mi trovo benevolo nei suoi confronti, questa notte infatti ho avuto una rivelazione in sogno, ho pensato che, forse, quella noia senile fatta pellicola è in realtà un acuto e pungente esercizio di stile meta-cinematografico. Forse il regista giapponese, lontanissimo dalla cultura europea, ha voluto semplicemente dimostrare di saper replicare il tipico modello di elegante dramma familiare francese esattamente come avrebbe fatto un parigino nato e cresciuto in Francia, un po’ come se volesse far capire di abbassare la cresta, denunciando quel vecchio format come robetta ormai codificata, plastificata e superficiale, alla portata di registi di ogni dove, non più quel vanto snob di cui vanno tanto fieri i cugini d’oltralpe. Fosse così allora sarebbe opera di puro genio. Di certo il risultato sembra in tutto e per tutto un classico, altezzoso, borioso e auto compiaciuto dramma familiare francese, noioso come decine di altri suoi simili.

Col cuore infranto e il cervello addormentato rientro nella stessa, enorme, magnifica sala Darsena per un film fuori concorso, Pelican Blood di Katrin Gebbe. Il progetto è coraggioso, originale e ambizioso: la regista vuole accostare, non mescolare, si badi bene, il dramma familiare col genere mamma coraggio, il thriller e l’horror. Già mi sta simpatica ma, se fossi la sua maestra, nella pagella scrivei: “La studentessa ha delle belle idee ma la realizzazione è infantile, banale e francamente ridicola. A tratti irritante“. Se fosse una mia amica la porterei una sera al bar per farle capire, dopo un paio di bicchieri di vino, che ci sono altri modi di mostrare il dolore di un bambino oltre al farlo urlare o piangere. I fatti si susseguono con una prevedibilità sconcertante e, alla fine, la virata horror non è nemmeno abbastanza eccessiva da far ridere, la pellicola non funziona anhimè nemmeno nella comicità involontaria. Temo che l’obiettivo della regista fosse quello di mostrare quanto una donna sia capace di amare, inanellando una serie di irrealistiche ipocrisie che non ha pari nella storia del cinema. Difficile fare di peggio. Questo film ci insegna che: la psicologia e la farmacologia sono inutili, se si vuole guarire dalla follia occorre rivolgersi a una strega e tagliare teste di cavalli.

Dopo due opere così basse, in stato confusionale, provo a vedere se la storia d’amore tra un belloccio spiantato senza cervello per una domestica filippina transessuale può salvare una giornata che sembra decisa a voler rotolare nel letamaio ad ogni costo. Vedo così Lingua franca di Isabel Sandoval. La regia è grezza ma efficace, la storia è senza sorprese e senza scivoloni. Ne risulta un piccolo film, già ampiamente dimenticato dopo 24 ore, che almeno non commette errori e non si copre di ridicolo. E’ difficile da consigliare ma, almeno, si può chiamare film senza poi doversi lavare la bocca.

L’ultima opera della giornata, in concorso, è araba, The Perfect Candidate di Haifaa Al-Mansour. Racconta la storia di una donna coraggio che, quasi per caso, si trova in corsa per le elezioni municipali in un paese dove una femmina in politica è vista come un’umiliazione e una sciagura dalle altre donne in primis. La bellissima protagonista in burka sfida le regole sociali e le malelingue in una crociata femminista che, sorprendentemente, in maniera al limite della farsa, termina sminuendo tutto ciò per cui aveva combattuto: la ragazza finisce per accettare passivamente la sua condizione tornando alla situazione iniziale, cercando pure di convincere il pubblico di un qualche vanto non ben comprensibile nel farlo. Più che un film sulla lotta all’arretratezza di pensiero nel medio oriente sembra un film di regime. Offensivo. Va però dato atto alla regia lo sforzo di dare un taglio popolare e di intrattenimento al cinema arabo, dopo tanti anni in cui ci aveva abituato a uno stile grigio, rigido, pesante e il più delle volte noioso.

Stamattina ero in ritardo, si, ma qualcuno lo era più di me. Una ragazza vestita di tutto punto con un tubino pailettato afro, chiusa in un muso da veneziana purissima coi nervi a fior di pelle, vedendo il battello pronto a partire, aveva preso la sciagurata decisione di entrare di corsa dal pontile dedicato all’uscita dei passeggeri, contromano, senza notare la catenella con cui era chiuso. Dopo il contatto con gli anelli di ferro si è trovata piegata in due, stretta in una specie fionda che l’ha fatta rimbalzare a terra piena di lividi all’altezza dell’inguine. Buona giornata anche a te mia meravigliosa, distratta, compaesana.

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