La città del Cinema del Lido di Venezia ha la completezza di un microcosmo e la consistenza di una bolla: all’interno vi è tutto ciò che serve ad alimentarla per una settimana e mezza all’anno, dopodiché scoppia, lasciando all’isola quel solco di malinconia tipico dei luoghi che prendono vita solo grazie ad un temporaneo incantesimo, che quest’anno si ripete per la 75sima edizione.
Questo non per me: mi affaccio per la prima volta sulla vetrina italiana della settima arte e, al contrario dei miei veterani compagni di avventura, godo della fresca spolverata di glamour sprizzata dalla bacchetta magica senza riconoscerne i volti, additarne i cambiamenti, ritrovare la familiarità dei soliti posti. Ho dalla mia parte la bellezza endogena delle cose nuove.
Mi preparo come una scolaretta alla vigilia del primo giorno di lezione: prendo appunti sul fitto programma, metto la merendina in borsa, cerco di interiorizzare i tempi del percorso per non mancare il suono della campanella. Anche l’idea di svegliarmi ad orari disumani non mi destabilizza più di tanto, almeno non quanto lo scoprire che anche a ridosso dell’alba il numero di umani al volante è già considerevole (sarà davvero così tutti i giorni o è semplicemente perché, come me, stanno andando alla Mostra?). Completo la mia triplice sequenza di mezzi di trasporto senza intoppi e alla fine, posato il piede giù dal vaporetto, quasi a premiare il compimento della traversata, trovo il mio Virgilio, mandatomi sotto le spoglie di (un) Angelo.
Il mio addestramento incomincia coi fondamentali: i bagni, la colazione, la Signora della colazione, le sale, le file.
Il sistema interno di stratificazione sociale è copiato pari pari dalle caste indiane, ad ognuna corrispondono poteri e privilegi ed è associata ad un colore. A noi tocca il giallo, vado subito a controllare: nel sistema indiano corrisponde ai “Vaiśya: mercanti e artigiani, coloro i cui mestieri sono dovuti alla produzione, al commercio e all’industria”. Non male, no? Wikipedia e Angelo mi rassicurano: non siamo noi i paria, a loro è toccato il verde ed avranno l’accesso in sala per ultimi.
Lasciandomi pervadere dallo spirito marcatamente classista dell’evento senza eccessivi sensi di colpa, conquisto finalmente l’entrata della sala Darsena per la prima proiezione. L’apertura e la chiusura di qualcosa sono avvenimenti che sembrano avere sempre un’importanza autonoma, che prescinde da tutto quello che succede nel mezzo: forse non a caso nascita e morte sono le uniche informazioni biografiche che troviamo sempre, anche nelle lapidi. Ma non sono al Lido per riflettere sulla sopravvalutazione di Alfa e Omega, la motivazione profonda che mi ha spinta a scegliere il primo titolo è, per fortuna, molto più triviale.
FIRST MAN di Damien Chazelle ha come protagonista quella “puttanella di Hollywood” (cit. l’Arienti) conosciuta come Ryan Gosling e catapultata nel grande schermo nei panni di Neil Armstrong, primo uomo ad indossare legittimamente un paio di moonboot, mica come i milanesi ai mercatini di Natale di Trento. Non che mi aspetti qualcosa dall’ennesima riproposizione cinematografica del “grande passo per l’umanità”, ma avendo ancora in mente la generosità con cui il mio biondino nerd preferito aveva regalato al grande pubblico i suoi bicipiti scolpiti in Blade Runner 2049, speravo che ci fosse ancora qualche avanzo per gli occhi. Invece no, e stupida io che non ci ho pensato prima: gli astronauti sono più vestiti di quanto avrei dovuto essere vestita io in quella grande sala tenuta alla stessa temperatura del reparto frigo del supermercato. Cerco di trovare un senso al film nello sguardo intimista riservato al nostro primo uomo, ma ci vedo solo la retorica dell’eroe che vuole agire al di fuori della retorica, con l’appiglio comodo della figlia malata di cancro. Per il resto, le scene di azioni concedono brevi giri in giostra, nello specifico nel simulatore del Luna Park, e mi insegnano che anche gli astronauti, così come le donne incinte e tutti gli innamorati, sono tormentati da forti nausee.
Esco dalla sala e mi rimetto in coda: come per quegli appuntamenti che si vorrebbero evitare ma che un moto di coscienza rende indispensabili, mi siedo davanti al dolore della storia di Stefano Cucchi. SULLA MIA PELLE di Alessio Cremonini non annoia, non strizza l’occhio al cliché del poliziotto buono e poliziotto cattivo e soprattutto non mira a ricattare il pubblico spettacolarizzando la violenza. Questa non si vede, così come non è stata vista dai tanti a cui è passata sotto agli occhi. Un film che riesce a ferire restando al proprio posto, limitandosi a mostrare segni ed evoluzione del male umano con rigore anatomico.
Nel pomeriggio vivo l’esperienza dello smacco da rimbalzo: la sala del film successivo non riesce a contenere i membri di tutte le caste e io mi riprometto di fare qualche buona azione così da reincarnarmi in un portatore di pass rosso nella prossima vita. Senza dare troppo spazio allo sconforto, ne approfitto per esplorare la rinomata sala stampa dell’ultimo piano. Disseminato da comode postazioni con seduta, prese e PC, lo spazio è ben riempito da indaffaratissimi colleghi (e mi scusino per l’appellativo egualitario i signori bramini presenti in sala). Sbircio nei loro schermi: nessuno parrebbe ammazzare il tempo giocando a Candid Crush, sono tutti chini a selezionare foto e a riempire spazi bianchi con file di lettere. Nella sala giusto a fianco, gli animali da intervista assalgono cast e regista di First Man, ogni tanto butto un occhio sullo schermo esterno per assicurarmi che Ryan non chieda di me.
Riprende la giostra: JOSE’ di Li Cheng è stato utilissimo a rivelarmi un altro segreto del piccolo mondo che imparo a conoscere. Alla Mostra il tempo smette di essere scandito dalle lancette ed anche le indicazioni dei minuti riportate a fianco ai titoli dei film sono ingannevoli: mai come in questi giorni si afferra la filosofia agostiniana del tempo quale distensio animi. In altre parole e chiedendo perdono per la menzione sacra in un contesto profano: più un film è noioso più il tempo trascorso in sala si dilata. Con Josè sono entrata in sala alle 17 e credo di esserci stata almeno tre giorni, infatti quando esco tutto è cambiato e pieno di ragazzine urlanti ed occhi meccanici puntati sul red carpet. Faccio finta che non mi interessi vedere i vips perché so che non ho più l’età né l’energia per sgomitare tra le quindicenni appostate ed in evidente delirio da ustione solare.
THE MOUNTAIN di Rick Alverson chiude la ricca tavola della prima giornata lasciando in bocca la consistenza grumosa di un dolce al cucchiaio fatto di ingredienti di prima qualità, ma messi insieme di fretta e con la presunzione di poter fare a meno della ricetta. Il film incastona in bellissime immagini estremi rimedi per mali estremi, fa dialogare un buon numero di numeri primi, sorprende con punte di comicità inopportuna, eppure manca il tutto che tiene insieme le singole parti.
Esco dalla sala ed è buio, non ho visto il sole calare né potrei testimoniare a favore del tramonto, ma una perfetta luna rossa mi riporta allo scandire naturale del tempo.