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Nuevo orden e gli altri vincitori di #Venezia77 per la Cricchetta del cinemino

di il 12/09/2020
 

L’arena è gremita e la folla rumoreggia. Gli sfidanti sono caldi ma non fanno nemmeno un passo sul ring che vengono spazzati via, annientati da un’edizione in cui il cinema est europeo ha mostrato muscoli poderosi, presentando sia in concorso che fuori solo titoli di indubbia qualità. Le altre latitudini/longitudini cinematografiche non possono che alzare la guardia. Provano maldestramente a difendersi, in attesa di uno spiraglio che sembra non arrivare mai, cadendo come mosche.

È oramai sera e la Polonia ha travolto illesa quasi tutti i pretendenti al Leone D’oro con l’opera artisticamente più rilevante, quel gioiello che risponde al nome di Never gonna snow again. L’edizione 2020 della Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia sembra ormai chiusa. I pesi piuma in concorso si sono dimostrati inesperti, presuntuosi, incapaci, amatoriali, senili, a corto di idee, poco creativi o già morti in partenza; ma proprio quando meno se lo aspetta, come nel più classico dei thriller, al campione, già con le braccia al cielo, arriva un gancio brutale, violentissimo, dritto alla mandibola. Salta per aria, al rallenty, un prezzo di lingua, mozzato. Il tempo sembra fermarsi. Il pubblico tace. Michel Franco, l’esile regista messicano, è in mezzo al ring e guarda dall’alto in basso il Campione che vacilla con un’arcata dentale divelta e un ginocchio a terra. Il riccioluto ha gli occhi di chi non ha niente da perdere, senza fiducia, senza sentimenti, senza emozione né speranza. È un infinito vortice di violenza, spietato, di estremo dolore e morte. Scaraventa ad occhi chiusi una sassaiola di pugni allo stomaco. Non prova a difendersi dall’odio che provocherà nel pubblico. Per lui vita, morte, amore e odio sono parole vuote. Dagli spalti arrivano fischi e insulti. Il suo piano procede come previsto.
Inaspettatamente la gara si riapre e la vittoria sembra ora più indecisa che mai. La forza irresistibile del sofisticato gioco di gambe del Campione impatta senza risultato sulle tenebre irremovibili dello Sfidante, forte del suo animo sfregiato e del suo ritmo serrato.

Nuevo orden non racconta una rivoluzione ma tutte le rivoluzioni, evidenziando il loro essere semplice sottoinsieme del gioco del potere, lui si vero tumore mai curato, uguale da sempre e per sempre. Racconta a chi non se n’è ancora accorto l’unica atroce realtà possibile, cioè quella in cui ogni resistenza al sistema, ogni speranza nel futuro e ogni tentativo di cambiamento sono superflui. Agli illusi non rimane che crogiolarsi nel puro, fine a se stesso, autoerotismo. Sapere che la sola libertà lasciata al singolo sia la propria ridicola trincea di calcestruzzo, amici ammaestrati ed egoismo fa l’effetto di uno di quegli incubi che al risveglio continuano a lasciarti disorientato. Uno di quelli che piega la schiena e ammorbidisce le ginocchia. Fa arrabbiare. Si esce di sala camminando storditi in un mondo di gomma, in cui si fatica a stare in equilibrio. Ci vorranno molto di più di questi velocissimi ottantotto minuti per riprendersi dalla nausea.

Michel Franco presenta un’opera meravigliosamente dolorosa e, con quel finale, anche la più spudoratamente politica dell’intera manifestazione. La politica universale, non quella da bar, su cui i potenti giocano: non la banale, quotidiana e borghese lotta tra destra e sinistra.

Il campione si rialza in tutti i suoi due metri di altezza, è alle corde ma sa di essere Golia contro Davide. Guarda lo sfidante e vede l’abisso. Si accorge di non riuscire a muoversi proprio mentre suona la campana. L’incontro è vinto ai punti ma nessuno esulta, tutti sanno che, se non fosse stato oggi, con un est europa dopato al massimo della forma, in un qualsiasi altro momento storico, lo sfidante avrebbe fatto piazza pulita.

Dimesso, dietro lo sgabello di legno all’angolo, con un asciugamani al collo e un secchio di sangue e sputi, il vecchio saggio, pluri-premiato ed esperto Andrei Konchalovsky assiste alla chiusura del match già sicuro di essere dietro ai due contendenti solo per raggiunti limiti di età. I suoi schemi di gioco, la sua mano ferma e la sua sicurezza sopperiscono facilmente alla naturale ipotrofia della terza età. Una medaglia di bronzo vinta facilmente, più che per merito suo, per gravissimo demerito degli altri giovani inetti in gara. Sa di essere stato fortunato, e sa che i suoi bicipiti mosci lo hanno ammorbidito troppo, soprattutto nel chiudere la trama del suo altrimenti algido, ermetico ed inossidabile Dear Comrades. La sua carriera si chiude oggi.

Ok, ho saltato tutto il pippone iniziale, praticamente vincerà Never gonna snow again?
Probabilmente no, potrebbe superarlo il politicamente corretto. Mi spiego, dopo le polemiche dello scorso anno sulle “quote rosa“, i selezionatori hanno creato un concorso ad hoc di, praticamente, solo registe donne. All’epoca mi era piaciuta la risposta ufficiale ai giornalisti: “A noi interessa la qualità dei film, non il sesso del regista“. Mi domando però se la dirigenza nel frattempo non abbia cambiato idea: è solo per puro caso, una coincidenza, che dopo 77 anni, proprio nel 2020, l’anno dopo la polemica, siano diventate le donne a fare i film più belli al mondo? Non è che la toppa sia più sessista del problema che voleva risolvere?

Wang Jing

Temo che, semplicemente, quest’anno siano state poste in essere tutte le condizioni perché sia una donna a vincere il primo premio al Lido. Meglio ancora se italiana, come nel caso di quella vergognosa telenovela brasiliana mascherata da pop-star di Miss Marx. Me li vedo già i titoloni sui quotidiani il giorno dopo. Tutta ottima pubblicità per tutti.

Odio la politica nell’arte ma devo tenerne conto, e so che a pensare male ci si azzecca quasi sempre: sarà quindi anche quest’anno il Leone d’argento a premiare il film più artistico di questa mostra d’arte? A stasera per la sentenza della giuria ufficiale.

E nei ring secondari come procede la sfida?

Philipp Yuryev

Nella sezione Orizzonti il commovente debutto alla regia di Wang Jing col suo Bu Zhi Bu Xiu (The Best Is Yet To Come), prodotto niente meno che da sua maestà Jia Zhangke, è il gioiello che vince a mani basse.

Nella Settimana Delle Critica Bad Roads (Pohani Dorogy) di Natalya Vorozhbit già dai primi giorni di concorso aveva segnato un livello irraggiungibile per chiunque altro.

Per le Giornate degli autori, il premio della cricchetta va al misterioso ed introverso Preparations to Be Together for an Unknown Period of Time di Lili Horvát. Anche se il bel Kitoboy dello stralunato Philipp Yuryev gli sta col fiato sul collo.

Lili Horvát

Dietro le quinte, fuori dai riflettori ed incredibilmente escluso dalla competizione, tra i camerini, le cucine luride, le sgallettate con spacco ascellare, i letti sfatti e gli uscieri annoiati, c’è lo spettacolo isterico, ipnotico e kafkiano di Mosquito State di Filip Jan Rymsza, uno che picchia come un fabbro, tutto tumefatto, non tanto dai colpi degli avversari quanto da innumerevoli punture di insetto. Non si risparmia, coperto da bubboni e pus, randella tutto e tutti in preda ad un’ansia psicotica che lo governa e che lo avrebbe portato in vetta, se solo lo avessero messo dentro il ring.

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