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#IFFR2019 – 4 passi di danza per combattere il gelo olandese, parte 3!

di il 01/02/2019
 

Ho sempre subito il fascino del Cammino di Santiago, conosco persone che l’hanno fatto e sono rimaste entusiaste dell’esperienza. Ciò mi ha spinto ad andare a vedere CAMINO di Martin de Vries. Pessima idea. In buona sostanza il cammino girato con un telefonino dove il regista racconta le sue impressioni. Non so che cosa cercassi in particolare, ma non certo una cosa come questa. Non è stato per niente divinatorio, ecco.

SON LUX di Brady Corbet
Seppur iniziato benissimo (titoli di testa strepitosi), con un’ottima storia e l’ambientazione giusta per raccontarla, questo film si è lentamente dissolto in un’accozzaglia di idee poco interessanti o originali, dando vita ad un clichè: la diva che arriva da una vita desolata, non ama i figli (se non a modo suo) ed ama invece l’alcol, le droghe e i farmaci. Che palle. Peccato che la seconda parte raggiunga una deriva decisamente troppo camp, rovinando del tutto una pellicola che nella prima mezzora pareva promettere uno sviluppo davvero interessante.

Natalie Portman, sempre bravissima, tende ad esagerare parecchio la figura della cantante capricciosa, creando un’interpretazione sì enfatica, ma un tantino fastidiosa. Infinito il finale nel concerto, come se davvero in regista non trovasse modo di finire. Peccato.

Nonostante molte siano proiezioni riservate alla stampa, gli accreditati possono accedere anche alle sale destinate al pubblico. L’aspetto davvero cool di questa organizzazione è che tutti i biglietti vengono caricati sul pass fin dal primo giorno, senza che uno debba sbattersi per andare a ritirarli il giorno stesso di ogni visione, come accade per certi spettacoli della Sala Grande a Venezia o per molti a Torino. La procedura funziona benissimo, fin dalle prime proiezioni temevo che gli intransigenti nordici mi dicessero che avevo sbagliato qualcosa. Per ora tutto fila liscio.

BLOODY MARIE di Lennert Hillege e Guido Van Driel
Marie è una marcia. Marie è una di noi. Marie si sveglia la mattina sul ballatoio di casa perché non è riuscita ad arrivare al letto. Marie vive ad Amsterdam (e dove altrimenti?) ed è conosciuta dai baristi di tutta la città. Marie è un’illustratrice famosa, ma l’alcol le impedisce di lavorare e le procura parecchi problemi, tra i quali uno bello grosso con la mafia russa. Film molto gradevole solo nella prima parte, del tutto sconclusionata. Probabilmente, anche Marie avrebbe voluto un po’ più di coraggio e un po’ meno desiderio di mainstream nel raccontare la sua storia. Presenza massiccia in sala di attori e registi, ovviamente molto applauditi.

E così sono andato nuovamente a vedere CLIMAX. A Cannes mi aveva così tanto entusiasmato, che ho detto ad Antonio, mio angelo custode a Rotterdam e compagno quasi inseparabile di visioni di questo Festival, che non ce lo potevamo perdere per niente al mondo. Climax è senza dubbio il film dell’anno e Gaspar Noè, che ha ben capito di aver creato un capolavoro ed un evento mediatico perfetto, ha riproposto lo stesso fuori programma di Cannes, vale a dire i ballerini protagonisti del film che ballano a ritmo di musica techno nel palco. La cosa molto positiva è stata che il film mi è piaciuto allo stesso modo della prima volta: il fatto che fosse una seconda visione non ha per niente intaccato il piacere e l’interesse. Tuttavia, dato che non sono Gaspar Noè, mi esimo dal proporvi una seconda recensione e vi rimando alla lettura della precedente.

Oggi nevica, ho cinque film da vedere in cinque sale diverse: non mi resta che indossare il costume di Barbie pattinatrice e volteggiare in giro per Rotterdam.

UNE JEAUNESSE DOREE di Eva Ionesco
Credo proprio di aver trovato il film peggiore del Festival, l’unico aggettivo che mi viene in mente per definirlo è: orrendo! Ma come si fa, dico io, ad avere a disposizione Isabelle Huppert, Melvin Poupaud e una storia potenzialmente interessante e finire col creare una tale porcheria? E’ il 1979 e il Palace è la discoteca più famosa non solo di Parigi, ma dell’intera Europa: ogni sera va in scena un carnevale con tanto di vestiti stravaganti e look oltraggiosi. Tra i partecipanti, artisti falliti e non, giovanissimi perditempo e attempate ereditiere, gay e travestiti. E naturalmente tanta, ma tanta droga. La regina di queste serate è Lucille, ricchissima musa di Thierry Mugler, con un debole per i ragazzi e sposata, in coppia aperta, con un ricco scrittore. La protagonista è una giovanissima coppia formata da Michael, l’attore che lo interpreta indossa un’unica espressione per l’intera pellicola, quella dell’artista imbronciato…ah, l’attore è anche il figlio della regista, e Rose, che di espressioni invece ne fa molte, moltissime, ma mai inerenti al personaggio. Nel film vengono snocciolate tutte le banalità e i clichè del cinema francese, la storia non prende mai forma, tra dialoghi insulsi di dubbia paternità, ah si, sono stati scritti dallo sceneggiatore, che è il marito della regista, e l’ingenuo tentativo di esser oltraggiosi con una storia a quattro, Santo Cielo! Alla fine, non ha applaudito nessuno.

La parola che sento nominare più frequentemente in sala stampa è Netflix.

OZEN di Emir Baigazin
Una casa in un posto isolato del Kazakistan dove cinque fratelli, tutti giovanissimi (il più adulto è appena adolescente), conducono una vita monotona fatta di lavori sempre uguali. Questa viene sconvolta dalla scoperta di un fiume dove nuotare, poco lontano da casa, e dall’arrivo di un cugino, con tablet e hoverboard, a rappresentare un mondo moderno lontanissimo dalla realtà dei fratelli. Un film girato in maniera eccezionale, con una cura maniacale per ogni singolo movimento, come se l’interpretazione di ogni fratello formasse una coreografia unica per tutta la durata della pellicola. Alle immagini strepitose e perfette (ogni singolo fotogramma è un ritratto magistrale) si unisce una storia molto semplice, ma intrisa di verità: i cinque fratelli e i loro comportamenti incarnano la rappresentazione dei vari aspetti dell’umanità, positivi e negativi, come se la loro vita nella casa fosse un microcosmo che rappresenta pregi e difetti di tutto il mondo. Mi ha ricordato molto il cinema di Tsai Ming Liang.

Intermezzo by Aloysius “Alois” Alzheimer: sapevo che mi sarebbe accaduto, anzi ne ero proprio certo, così quando dopo il primo minuto di SOPHIA, mi sono ricordato di averlo già visto a Cannes, non mi sono stupito. Da principio volevo dormire, poi ho deciso di sfruttare l’occasione per migliorare il mio poliglottismo, decifrando i sottotitoli in olandese con l’aiuto dei dialoghi in francese. Divertente, tutto sommato.

TEL AVIV ON FIRE di Sameh Zoabi
Delizioso film sulla questione israeliano palestinese, che viene finalmente affrontata con un taglio ironico e senza quel peso specifico tipico di tutte le discussioni che la menzionano, siano queste chiacchiere da bar, approfondimenti geopolitici nel salotto di Barbara d’Urso o assemblee delle Nazioni Unite. Finalmente viene sdoganata la risata su un conflitto che si è ormai trasformato in una partita nella quale nessuna delle due squadre abbandonerà mai il campo. Tel Aviv on fire è una telenovela che tiene inchiodato davanti alla televisione il popolo, israeliano e palestinese, finalmente unito nella passione per la vicenda amorosa tra una spia araba e un militare israeliano. Salem (bravissimo l’attore), inizialmente assunto come stagista per il set della soap opera, finisce in modo rocambolesco per diventarne lo sceneggiatore e la sua vita cambia completamente. Ho apprezzato molto il buon uso del meta-teatro, della struttura “film nel film” per generare una storia che scorre su vari livelli. Intrattenimento intelligente!

END OF SEASON di Elmar Imanov
Piccolo gioiello apparso di sorpresa all’ultima proiezione del giorno. Prima mondiale, film azero, autoprodotto e senza distribuzione, fatto con 85 euro o poco più (!). Date le premesse, l’ambientazione non può che essere un interno familiare, madre padre figlio. Le dinamiche quasi impercettibili tra i tre provocano un incidente ambiguo: lo spettatore non saprà fino alla fine cosa sia successo veramente, quale sia la verità. Ottimo l’ uso della fotografia e delle luci negli interni, il regista si affida alla bravura dei suoi attori (e fa molto bene) usando primi piani estremi e lunghissimi, nei quali le espressioni aiutano il compimento della trama. Il finale è una citazione piuttosto manifesta a Vive l’Amour di Tsai Ming Liang.

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