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#FEFF20 – Far east film festival for dummies, le feste di mezzanotte

di il 23/05/2018
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AFORISMA
 

Il secondo volume del favoloso almanacco per analfabeti di festival

 

I festival cinematografici si nutrono di un solo ingrediente, non di arte, non di passione, non di cultura, non di genio ma di popolarità. Più ne accumulano e più Star vorranno sfilare sul tappeto rosso, più sponsor vorranno far comparire il loro logo sulle locandine e più fondi pubblici verranno destinati all’evento. “Chissà che gli elettori se ne ricordino” pensa un anziano incatenato alla cravatta mentre si sfrega le mani fingendo di non sentire il cappio d’acciaio stingersi nell’attesa.
E’ per questo che gli accrediti “Media” (quelli destinati a chi scrive sull’evento, aumentandone di fatto la cassa di risonanza) normalmente sono distinti da quelli rilasciati ai volontari del centro ricreativo per ritardati mentali con annessa bocciofila. Il Far East Film Festival di Udine, però, è unico in tutto e, pur non potendosi svincolare completamente dalla logica commerciale, è fermamente democratico: tutti pagano una quota di partecipazione, tanto i media, quanto la quarantenne anoressica dallo sguardo schivo, quanto il Nerd dagli angoli della bocca bianchicci. Sintetizzando, tutti possono acquistare un accredito e il Teatro Nuovo Giovanni da Udine è riempito praticamente solo da accreditati. Certo, i Media hanno dei vantaggi, possono intervistare gli ospiti (registi, produttori, attori), assistere alle conferenze stampa e addirittura richiedere l’ospitalità all’organizzazione che – in alcuni casi – offre qualche notte in alloggi convenzionati. Ma non è per questi plus che si scrive sul Far East Film Festival, lo si fa perché è un evento speciale, diverso, gioioso, umano, e la voglia di promuoverlo riesce a vincere sulle ore di sonno da recuperare. Non ho mai pagato il mio contributo in denaro più volentieri.

I tipici Media-Press-Men® li si riconoscono subito: son li ogni giorno, da mattina a sera, spettinati, allucinati, col collirio pronto nel borsello e i solchi profondi sulla fronte. Alcuni tengono matita e block notes in sala, temendo una qualche illuminazione momentanea che potrebbe volatilizzarsi nel giro di pochi minuti, altri preferiscono una digestione lenta e aspettano la fine del festival per mettere alla prova la profondità dei film, altri ancora si vivono professionalizzatissimi e dopo ogni proiezione corrono al PC, li vedi sempre di fretta, sempre coinvolti in un qualche eccitatissimo affanno, sempre in ritardo per un appuntamento, rincorrendo una soddisfazione simile a quella di una gara sportiva.

Il regista di Diamond dogs e i suoi capelli

Quello tra i Festival cinematografici e i Media Press è un matrimonio in cui i partner si nutrono a vicenda, spalla contro spalla, sorreggendosi in un bilico preordinato e delicatissimo.

Io scrivo gli appunti durante la proiezione, lo faccio di rado, solo quando il film mi fa brillare un’idea. Li scrivo sullo smartphone, eliminando completamente la luminosità pur di non sembrare uno di quegli ebeti con la faccia fosforescente nel bel mezzo della sala buia. Scrivo alla cieca su una tastiera touch virtuale, in pratica lascio decidere al correttore ortografico di Google le sorti dei film che vedo e, diciamolo pure, è il mio segreto per essere originale nelle review. Al termine della proiezione notturna di Diamond Dogs di Gavin Lim, butto l’occhio allo schermo e salta fuori una sola annotazione:

Le puttane non sanno recitare

Curiosamente, per una volta, non è frutto di un’interpretazione casuale del correttore ortografico, ma è esattamente quello che penso di uno dei film che aspettavo di più: l’action brutale di Singapore, proiettato all’ora delle streghe.
Non vorrei essere frainteso, no, il regista no, figuriamoci, non direttamente lui, tutto casa-chiesa-parrucchiere, non può saperlo, non è certo abituato a certe frequentazioni, dico solo che quando Suo Cuggino® una volta gli ha detto che le prostitute “recitano”, secondo me l’ha preso un po’ troppo alla lettera. Così ne ha scritturate 3-4 per il film, deludendo sia il pubblico che cercava arte che i più furbetti in attesa di un numero ben maggiore di enormi mammelle cadenti in CinemaScope. L’azione scarseggia in questo action ma, in effetti, quando c’è è brutalmente low-costDiamond dogs sembra il remake amatoriale non autorizzato di un film bello che non ho mai visto. E’ di una bruttezza talmente rara che forse, voglio crederlo, potrebbe essere voluta. Il risultato è purtroppo quello di aver rovinato una festa annunciata: nessun tifo da stadio, nessun ululato dalle retrovie e nessun entusiasmo nel profondo della notte. Zero. Non vale neanche la pena stare qui a dire quanto ogni singola scena fosse piena di errori, quanto i dialoghi fossero superflui o quanto la maggior parte delle cose che succedono non servano minimamente la trama. In questo film la risposta e lo stimolo sono due entità che non entrano mai in contatto, è tutto raffazzonatamene finto. Sarà meglio aspettare altri 40 anni prima di girare un nuovo action a Singapore.
Comunque no, caro Gavin Lim, le prostitute non sanno recitare, nè sotto le lenzuola nè sui film.

Take my tongue, and give me a piece of yours

Le proiezioni di mezzanotte, al pari delle religioni, sono una sorta di colino che separa la crème de la crème degli appassionati dalla moltitudine. Questo sentirsi come degli Eletti giustifica comportamenti che gli spettatori mai terrebbero in altre ore del giorno. I fanatici di cinema sono eroi che dopo una giornata intera a guardare film rinunciano definitivamente al sonno conservando negli occhi l’eccitazione della prima volta e nel cervello la fede inoppugnabile che fa esclamare ad ogni singola proiezione: “Sarà un capolavoro!“. Gente con le palle e le occhiaie insomma, sopratutto occhiaie.
I film di mezzanotte sono da sempre garanzia di divertimento, partecipazione ed eccessi. Per questo li chiamo “le feste”. Sentire il calore del pubblico stremato, rimasto ormai privo di ogni difesa e spogliato da ogni inibizione, converge al cuore un’insperata esaltazione. Quello che si respira in quei momenti a notte fonda è un mix tra puro amore per il cinema e tamarraggine da bassifondi fortemente disagiati. Insomma amo i film di mezzanotte, nessuno provi nemmeno a pensare di rovinare quel clima o dovrà fare i conti con l’Ira Dei Giusti™. Sapere che siamo in pochi ad assaporare questo gusto prelibato mi riempie di rammarico. Così ne scrivo, condividendolo come in un caldo, sensualissimo, abbraccio.

Il secondo film di mezzanotte di cui vorrei parlare è di gran lunga l’opera migliore proiettata in questa edizione del festival: One cut of the dead, primo lungometraggio realizzato da tale Ueda Shinichiro, un genio. Quello che inizialmente immaginavamo essere una trashata splatter zombie, ovvero un b-movie da sfottere per farsi due sane risate, si è rivelato invece un gioiello di tecnica e audacia. Inizia con 37 incredibili minuti formati da un unico pianosequenza: una tecnica in cui non ci sono tagli, talmente difficile e rispettata che nella storia del cinema solo pochi grandi maestri hanno avuto il coraggio di usare. Ricordo ad esempio Orson Welles o Aleksandr Sokurov col suo noiosissimo, impeccabile e punto cruciale della settima arte: Arca Russa. I lunghi piano-sequenza sanno far paura ai corti di talento. Dopo quest’impressionante performance iniziale si vedono scorrere i titoli di coda e tutti rimaniamo basiti. Momenti di panico. Le nuche si girano a destra e a sinistra come a cercare una qualche risposta, o magari una semplice consolazione in una situazione tutto tranne che chiara. Lo schermo si riaccende, gli zombie sono spariti e si mostra la normale vita d’ufficio in una redazione. Quindi non è un trash, è forse un film meta-cinematografico? Macchè! E’ il primo esempio della storia di Film-Meta-Meta-Cinematografico®! Si appunta al petto con fierezza il suo look low-budget come una medaglia al valore di una guerra, quella cinematografica, che sembra ormai vinta dalla banalità o, al più, dalla noia. Quando pensi di averlo capito, di avergli fatto le scarpe, quando ti senti sicuro, lui ti spiazza, e poi ancora, finché non ti arrendi e la spocchia si trasforma in ammirazione prima e adorazione poi. Anche solo l’idea di far rivedere diverse volte le stesse scene facendole vivere allo spettatore in maniera sempre diversa è genio puro.

Ora occhio, Ueda Shinichiro, sei un grande, hai giocato col pubblico e hai confezionato un perfetto esercizio di stile, hai dimostrato di avere bicipiti da vendere, tutto ha funzionato come meglio non poteva, ci siamo divertiti, abbiamo fatto il tifo, ci siamo trovati spiazzati, ammaliati e sorpresi. Siamo rimasti entusiasti. Hai vinto nonostante l’enorme rischio di proporre un film così complicato, ma questa sfrontatezza, nonostante il risultato abbagliante, è al momento l’unico neo che intravedo in trasparenza in una promessa futura praticamente certa. Non dimenticarlo mai: l’ambizione sa bene come bruciare i destini.

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