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#VENEZIA76 – ARTE O MANIERA? VODKA TONIC! – ABOUT ENDLESSNESS di ROY ANDERSSON

di il 06/09/2019
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Lido di Venezia, 3 settembre. Ore 14,30. Per la prima volta dalle idi di Giugno la temperatura scende sotto i 72 gradi celsius. Vedo una certa eccitazione serpeggiare tra il popolo della mostra, speriamo non sia la Ferragnez. Viene convocata una riunione lampo di redazione della Cricchetta del cinemino. La sala riunioni è la consueta: il secondo chiosco prima del checkpoint Charlie sul Lungomare Marconi. Ormai non ci chiedono più cosa vogliamo: cominciano meccanicamente ad affettare arance, svitare bottiglioni di Schweppes e svuotare bottiglie di vodka di nazionalità incerta. La sessione di brainstorming è molto intensa e mentre il terzo Vodka Tonic è intento a massaggiare dolcemente le nostre sinapsi, la discussione vira sul film di Roy Andersson, About Endlessness (non metto il titolo originale in svedese perché in questo momento non ho voglia di cercare la a con quei cazzo di pallini).

“Non c’è una storia!” dice qualcuno.

“È solo una collezione di outtakes del piccione sull’albero!” incanza qualcun altro.

“Manierismo! Manierismo puro!” sentenzia un terzo, rovesciando il vassoietto di patatine.

La questione è interessante. Qual è il confine tra arte e maniera? Qual è il punto esatto in cui la creazione si esaurisce per diventare posa e sterile ripetizione?

Qual è il punto esatto in cui il Vodka Tonic perde la sua natura di perfetto connubio tra l’esilarante bolla indiana e la purezza altezzosa della vodka per diventare una brodazza sgasata dal retrogusto amarognolo?

Qual è il momento preciso in cui i furetti in fiamme e le pedate vaginali visti ieri in The Painted Bird smettono di essere arte per divenire banalissima exploitation?

Ok, dietro ai 21 tableaux vivants (qualcuno li ha contati, non controllo, mi fido) del film di Andersson non c’è una struttura narrativa lineare classica, non c’è una storia. Ma davvero abbiamo ancora bisogno per forza di una storia? Una delle più grandi fascinazioni nell’intero campo dell’arte visiva è immaginare le storie dietro ai volti di un dipinto di Hopper. Si apre un vortice infinito di combinazioni in cui lo spettatore può proiettare il proprio mondo interiore in quel preciso momento della sua esistenza. O preferiamo una bella crocifissione classica raffigurata ad nauseam per secoli, con tutte le emozioni bruciate in un secondo? Il prete alla disperata ricerca della fede perduta che appare in più vignette nel film ci fa sorridere. Ma perché ha perso la fede?

“E chi se ne fotte?” obietta l’infedele. 

“You’re missing the point, baby…”

Sì, perché l’epicentro del cinema di Anderson è l’empatia per l’essere umano, fotografato senza pietismi o lacrime facili ma con occhio benevolmente ironico. E l’ironia viene sempre inesorabilmente sottovalutata alle nostre latitudini, come fosse una figura retorica di serie b. In almeno una di queste non-storie c’è qualcosa che ci tocca da vicino, che ci consola facendoci sorridere e sentire più prossimi a qualcuno. È curioso come due tra i registi più accomunati da questa visione (Andersson e Kaurismaki) provengano da paesi freddi sprovvisti del proverbiale corazon latino.

Intanto sono al quarto Vodka Tonic e sono un generatore autogeno di empatia. Potrei persino vedere un film recente di Malick senza provare pulsioni omicide. Ma domani è un altro giorno…

 

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