Il “Cinema sposta le prospettive”: così recita una delle descrizioni degli Award consegnati durante questo Milano Film Fest. Non ci avevo mai pensato, ma credo che, in un certo senso, MFF abbia fatto proprio questo per me e molti spettatori.
Prendersi del tempo per godere delle sale del Cinema Anteo e del Piccolo Teatro (quanto adoro l’odore del teatro) durante sei giorni è stata un’esperienza molto ricca e intensa. Su e giù per Corso Garibaldi, con tappe tattiche per rifocillarsi con una gordissima fetta di Devil Food Cake da California Bakery o una refrigerante Menabrea al baretto davanti al Piccolo, dove la graziosa sala da tè è diventata avamposto dello staff del MFF che tagliava i pezzi mentre discorreva del tecnico della caldaia.
Il Festival è stato un gradito ritorno per la città: prima del COVID alcune delle stesse realtà organizzatrici erano già attive negli eventi cinematografici a Milano, anche se questa è stata venduta dagli organizzatori come la prima grande edizione di un festival del cinema per la città di Milano. In effetti se devo pensare al protagonista del festival, per me è stata proprio Milano, città multiforme ed eclettica. Festival fatto dai milanesi (e non solo) per i milanesi (e non solo). Nessun film – a quanto mi risulta – era ambientato a Milano, ma alcuni tratti della città li ho ritrovati nelle proiezioni ambientate lungo le strade di Manila o di Teheran, dove le trans si prostituiscono per strada e a volte ti devi guardare le spalle tornando a casa. Mi ha fatto molto ridere (una volta giunta a casa, però) trovare, lungo la via del ritorno, in tram (il n. 2) un tizio strafatto con una benda sull’occhio che al telefono raccontava urlando di quando uno aveva provato ad accoltellarlo. Era la stessa sera in cui ho visto Blazing Fist che descrive vividamente le lotte tra bande e con la Yakuza lungo le strada giapponesi, in effetti magari ero un po’ suggestionabile.
Domenica, durante la serata conclusiva al Piccolo, si è tenuto un tributo al milanese Enzo Jannacci, momento in cui il figlio Paolo e l’amico Cochi Ponzoni hanno ricordato aneddoti sulla sua presenza davanti e dietro le scene (studente di medicina, si portava pesanti libroni sul set per studiare tra una pausa e l’altra). MFF è stata un’iniziativa diffusa e collettiva, che ha visto l’organizzazione di proiezioni disseminate in tutti i Municipi della città, con l’intento di sprigionare vitalità ed energia nei vari quartieri di Milano (sezione “Scintille” del MFF).
Volutamente decentrato, ma allo stesso tempo internazionale, il giovane ed esuberante festival ha premiato il migliore tra 10 cortometraggi e i 10 lungometraggi, provenienti da tutto il mondo. Durante le premiazioni di sabato sera, il Presidente di Giuria James Franco strizzava l’occhio alla spumeggiante protagonista del lungometraggio vincitore Aimer Perdre (Maria Cavalier Bazan), indicandola con due dita come a dire “ti tengo d’occhio”. Nell’intento dichiarato dagli organizzatori, questo è un festival di contaminazione di linguaggi, quello teatrale e quello cinematografico, di inclusione e di accoglienza. Alla serata introduttiva, il Direttore Artistico Claudio Santamaria dialoga con il critico cinematografico Gianni Canova su che cosa sia il cinema. Mi sorprende la generosità e passione di Canova (rettore della IULM fino all’anno scorso) nel condividere la sua esperienza di studioso, oltre che insegnante e critico, con il pubblico. Parla di cinema come un capitale emotivo e si definisce “archeologo delle immagini in movimento”. Tra i suoi film del cuore ci regala tre clip: la scena in cui Roger O. Thornhill (Cary Grant), protagonista di North by Northwest (1959, Hitchcock), dialoga con la audace Eva Marie Saint sul treno. Poi, Robert De Niro in Once Upon a Time in America (1984, Sergio Leone) che ritorna nella grande mela trasformata. E la misteriosa scena di Contact in cui non ci riusciamo a spiegare come Zemeckis abbia potuto ritrarre la corsa della ragazzina che soccorre il padre.
MFF è anche ritrovarsi nel bel mezzo di un cast che si presta ai giornalisti per qualche scatto (quanto è bello Alessandro Gassman!) e intrufolarsi ai dietro le quinte con attori e registi in sala, come quello di Follemente, in cui il regista Paolo Genovese lo definisce un film corale, che inscena un primo appuntamento e dà voce alle emozioni di lui e di lei. Di fatto ci sono 4 persone in una, che giocano nella rappresentazione dei pensieri, spesso contrastanti, dei due protagonisti in carne ed ossa. Mi ricorda il film di animazione Inside Out. In sala, oltre al regista, anche Marco Giallini e Claudio Santamaria che nel film danno voce rispettivamente al professore e al lato impulsivo del protagonista maschile. L’intesa che è riuscita a costruire il film tra questi attori (probabilmente merito anche del regista) si percepisce anche durante l’evento, quando i due paiono amici che scherzano e si prendono in giro. Il regista ci confida che per lui è stato importante prendersi tempo per creare la giusta alchimia: i dieci protagonisti alla fine sono diventati un gruppo di amici, parti di un tutto.
MFF è significato anche ascoltare la voce di Stefano Nazzi nel suo “Canti di guerra”, in cui ci racconta una Milano degli anni settanta, fatta di conflitti, vendette e amori. Finito il reading, perdo il 2 per ritornare nel sagrato ad ascoltare Blue Monday dei New Order, riprodotta in cover dalla giovane band selezionata da Manuel Agnelli per la rassegna da Carne Fresca.
Un festival in cui si è cercato di accontentare tutti, sia nella programmazione, sia nella risoluzione dei problemi tecnici, che non sono purtroppo mancati. Dal calcolo approssimativo dei posti riservati in sala (ci sta – prima edizione) alla mancata proiezione del tanto attesa film di chiusura The Ugly Stepsister. Il body-horror si è rivelato davvero inquietante e snervante per i continui blocchi nella proiezioni, fino a che, dopo un’attesa piuttosto lunga, gli organizzatori hanno preso in mano la situazione, decidendo di proiettare 40 acres, invitando il pubblico a una nuova futura proiezione da ripianificare. Anche durante la serata finale di premiazioni non sono mancati i colpi di scena: la premiazione per il miglior cortometraggio è stata annunciata ma poi si sono dimenticati di consegnare il premio, per cui l’intera giuria è dovuta risalire successivamente sul palco per la consegna del premio a Rochelle. Oppure quando gli ospiti annunciati non si presentavano e i cartellini di consegna dei premi venivano letti con i nomi sbagliati (abbastanza imbarazzante, ma il presentatore Giuseppe Scoditti, ha gestito bene il palco, nonostante tutto). Diciamo che a tratti è stato davvero rocambolesco, mi sembrava di stare dentro ad una commedia all’italiana.
Perdoniamo tutto, grazie alla qualità di molti dei lungometraggi e cortometraggi selezionati e la dedizione dello staff, primo su tutti il direttore artistico Claudio Santamaria, che è stato presente durante tutta la durata del festival, pur avendo un piede rotto, con una presenza vera, non di facciata. L’ho sorpreso in più di un’occasione dare consigli ai ragazzi dello staff fuori nel segrato del Piccolo o tra i corridoi dell’Anteo, tra una proiezione e l’altra. Inoltre, ha ricordato l’impegno delle associazioni sui tavoli istituzionali per rivendicare i diritti degli artisti dinanzi al Ministero della Cultura, ricordandoci che sono 160 Mila i lavoratori dello spettacolo che al momento stanno cambiando lavoro per la situazione difficile in cui versa il settore, facendoci riflettere sul futuro del cinema. Santamaria ammonisce ad un ritorno alla realtà, ricordandoci che in fondo “i film attraverso la menzogna raccontano la verità”. Quella realtà che ho trovato nelle narrazioni di queste pellicole, che attraverso racconti di vite mi hanno fatto riflettere, spostando un po’ più in là la prospettiva, dedicando il giusto tempo alla visione, riflessione e di gestione di contenuti spesso carichi di emotività e significato.