INT. SYMPO SALA STAMPA – GIORNO
Una grande sala soffocante, niente aria condizionata. Dagli alti soffitti sembra scendere un calore denso ed umido. GIORNALISTI e ADDETTI AI LAVORI, personaggi dalla strana consistenza liquida, si sciolgono sul pavimento e si ricompongono sui divanetti con una curiosa fissità nello sguardo.
Al centro, il NARRATORE (tra i 35 e i 50 anni, occhiaie marcate, camicia umida appiccicata alla pelle) siede di fronte a MASSIMO BENVEGNU, direttore del Biografilm Festival. Massimo, sulla cinquantina, ha il volto imperlato di sudore ma un’espressione calma, quasi stoica. Sul tavolo tra loro, taccuini, penne e bottiglie d’acqua mezze vuote.

Massimo Benvegnu
NARRATORE
(con un filo di voce, asciugandosi la fronte)
Ma perché… perché non fate le proiezioni anche di pomeriggio?
Massimo lo fissa, un sopracciglio leggermente inarcato
MASSIMO
(con un mezzo sorriso)
Perché al pomeriggio non viene nessuno. Fa troppo caldo.
Il Narratore annuisce, pentito della sua ingenua domanda. La MDP si avvicina al suo volto, poi si allontana e mentre lui prosegue l’intervista, la MDP scende le scale, dirigendosi verso l’uscita.
NARRATORE (V.O.)
Cluster Ardente 7K, un tempo chiamata Bologna. Qui, nella Stagione del Collasso Termico, un corpo umano, se è in buona salute e senza tuta termoregolante, resiste in esterno novanta minuti. Poi, il delirio. Le convulsioni. Gli spasmi. Se sei un giornalista il tuo corpo non è manco in buona salute. Ti restano sessanta minuti, non di più.

Non esiste nessuna Lounge
TAGLIO A:
EST. STRADE DI BOLOGNA – GIORNO
Il Narratore cammina a fatica sotto i portici, la borsa a tracolla che sbatte contro il fianco. Il suo passo è incerto, il volto contratto dal caldo. Passa accanto a un manifesto del Biografilm Festival, stinto dal sole, che indica una Lounge, e si dirige in quella direzione.
NARRATORE (V.O.) (CONTINUA)
Quindici minuti per arrivare in sala stampa. Una volta lì, annaspi, confuso. Se sei fortunato, qualcuno ti riconosce, ti ricorda cosa sei venuto a fare, un’intervista, forse. Fai l’intervista, esci. Ora hai quaranta minuti di autonomia. Cerchi un bar, un’ombra sotto la quale morire. La prima proiezione è alle 19:15, sai che non potrai resistere così a lungo qui fuori.
La telecamera segue il Narratore mentre si ferma davanti a un bar, esitando. Spinge la porta, ma il caldo lo segue dentro come un’ombra.
Temi e Sguardi del Festival
Mentre il mio pensiero indugia pigramente su scadenti sceneggiature, Massimo Benvegnu mi guarda paziente e attende la mia prossima domanda.
“Quali temi avete privilegiato in questa edizione?” chiedo.
“Accanto alle biografie e all’identità, è emerso anche il tema della militanza,” risponde Massimo. “Ci siamo chiesti: cosa possiamo fare, nel nostro piccolo, per cambiare le cose? Dai giovani che si iscrivono a Rifondazione Comunista, alla ragazza albanese che intervista i genitori per capire il proprio passato, fino a storie come quella di Lolli e delle radio libere. Il documentario diventa spazio di riflessione e azione.”
Il primo commento di Benvegnu fa riferimento a Comrades, un curioso documentario che segue i dilemmi ideologici di tre giovani membri di Rifondazione Comunista, un partito anacronistico che non smuove più le piazze, ma si trascina stancamente, insensibile anche agli stessi principi che lo fondano. Il film li osserva mentre si allontanano dalla politica, portandosi dietro uno strano senso di straniamento.

Comrades di Joanna Janikowska
“Fare politica da comunisti è una cosa strana, perché sono uno medio che non sa le cose, è una cosa lontana che mi parla di storie vecchie un po’ brutte, che non conosco, non mi interessa.” Questa meravigliosa dichiarazione di estrema onestà intellettuale la fa proprio il più “morettiano” dei tre ragazzi di Comrades, che cercherà nuovi linguaggi e veicoli per trasmettere il suo messaggio di uguaglianza, unione e lotta contro le ingiustizie.
“Con Alpha, ad esempio, abbiamo visto in sala una nuova cinefilia giovane,” prosegue Massimo. “Ragazzi e ragazze attenti, curiosi. Alcuni film sono andati esauriti già in prevendita. È una scelta strategica: vogliamo intercettare anche i cinefili e portarli poi a scoprire il documentario.”
Alpha è un film che ancora sto metabolizzando, e di cui non riesco a fissare del tutto le idee. È un’opera estrema e imperfetta, ma anche molto intima, ed alcuni momenti possiedono una potenza cinematografica sconvolgente. Julia Ducournau, presente in sala alla prima italiana del suo film, ci ha tenuto a precisare che, nonostante il contesto del Biografilm,

Julia Ducournau, per gli amici Ducurnau, per i parenti stretti Dugurnau
“il mio film non è una biografia; se i miei film fossero delle biografie della mia vita, a quest’ora io sarei già in prigione.“
Sarebbe probabilmente in prigione anche il protagonista di Mr Nobody against Putin di David Borenstein, (vincitore dell’Audience Award al Concorso Internazionale) videomaker e organizzatore di eventi di una scuola russa, che è fuggito dalla sua madrepatria portandosi con sé il materiale per questo documentario, che mostra la deriva educativa dell’istituto dopo l’invasione russa dell’Ucraina: i ragazzini vengono sottoposti a surreali incontri con militari che mostrano con fierezza l’uso delle armi, e a sedicenti professori di storia che inculcano ideologie fortemente irregimentate.
Amerika, it’s Wunderbar
Ma fa più paura l’ideologia calata dall’alto dell’Unione Sovietica o quella inoculata per vie più subdole, sofisticate e opache di un paese come gli Stati Uniti?
“Le armi ce le ha date Dio!” esclama uno dei personaggi di Democracy in America, che esplora la campagna elettorale del 2024 nel cuore dell’East Texas. Il documentario usa questa lente d’ingrandimento per analizzare le fratture che attraversano l’America di oggi. Attraverso l’alternanza tra le campagne dei due candidati, il film costruisce un ritratto vivido di una comunità spaccata, in cui i due fronti, repubblicani e democratici, sembrano appartenere a realtà quasi inconciliabili.
Su una cosa però, si trovano in perfetto accordo.
The only thing that can stop a bad guy with a gun is a good guy with a gun
Una parafrasi da Per un pugno di dollari detta con tranquillità disarmante, da un massiccio repubblicano in tuta mimetica, con l’aria pacata di chi sta per godersi la sua meritata shooting session. Nei suoi occhi, però, lampeggia quella Moral Authority tanto cara all’Occidente. La stessa che Harold Pinter smontava pezzo per pezzo nel suo feroce ed indimenticabile discorso al Nobel.

Giovanni Troilo, autore di Democracy in America
Anche la candidata democratica, paladina dei diritti umani, del diritto all’aborto e della sanità pubblica, si dice “fermamente favorevole” al diritto di possedere armi, mentre mostra con orgoglio le sue cinque pistole, e brandisce una piccola ascia da borsetta.
“È un aspetto culturale profondamente radicato,” mi racconta il regista del documentario, Giovanni Troilo. “Togliere le armi è utopico: sarebbe come togliere un pezzo d’identità. La questione è anche storica. Il Texas nasce da una guerra di indipendenza contro il Messico, è terra di coloni. Questo plasma un’ideologia basata sull’autodifesa, sull’investitura divina.”
Nel documentario è chiaro anche il legame fortissimo tra religione e politica.
“Assolutamente,” conferma Troilo. “In America la religione non è solo un fatto privato, ma un fondamento del patto sociale. La retorica repubblicana è intrisa di simboli religiosi e idee di ‘popolo eletto’. Questo crea una legittimazione morale anche per scelte discutibili. Ad esempio, un senatore ha iniziato un comizio affermando che i tre nemici dell’America sono: la Cina, i confini e le tasse. È una semplificazione brutale, ma funziona, soprattutto se dettata da un pulpito.“
Bologna Mon Amour
Biografilm riflette anche il bilancio e la riapertura di un vecchio conto con Bologna, città in cui ho studiato e che ho sempre sentito distante. Del resto, ero solo un ragazzino proveniente da un contesto rurale, che cercava qualcosa di vitale, eversivo, violento. Mi ritrovai catapultato in una specie di realtà studentesca che si autoproclamava vivace e controculturale, ma che spesso somigliava più a un palcoscenico su cui veniva messo in scena uno strano spettacolo di disagio controllato e codificato, con un’estetica sorprendentemente uniforme. A me non veniva mai assegnata alcuna parte, me ne stavo lì ad attendere, sospeso. La crepa si è allargata sempre più negli anni, fino a che ho capito che Bologna non mi voleva. Forse perché percepiva il mio disprezzo, o forse non ha mai fatto caso alla mia presenza.
Ad ogni modo, è solo lasciandomela alle spalle che ho ritrovato la mia identità. Ma verso la fine dei miei anni universitari mi sentivo come i protagonisti di Dear Tomorrow, di Kaspar Astrup Schröder, il delicato e commovente documentario che racconta della solitudine in Giappone. Osservando e ascoltando le parole dei due protagonisti, persone adulte, gentili, simpatiche, che per circostanze quasi casuali sono rimaste completamente sole, si chiedono dove hanno sbagliato. Vorresti solo diventare loro amico per rifuggire dal senso di disagio che provoca in te la loro sommessa disperazione. A un certo punto uno dei due adotta un gufino, povera bestia, però ha fatto felice un uomo solo.

Dear Tomorrow
Tornando a Bologna, Piazza Verdi, in particolare, non potevo soffrirla. È stato molto liberatorio quando ho sentito uno dei personaggi del documentario vincitore del concorso Biografilm Italia, Il Pilastro di Roberto Beani, dire: “I ragazzi, perché devono stare in Piazza Verdi che fa cagare, venite nel parco del Pilastro, che ci son tanti alberi!” Il documentario racconta di un quartiere nato per ospitare la grande ondata di lavoratori operai provenienti dal meridione, e di come il quartiere si sia trasformato in un esperimento urbanistico e sociale straordinario.
Un paese di musichette mentre fuori c’è la morte
Il venerdì del Festival giunge la notizia dell’inizio dell’operazione Rising Lion, Israele bombarda l’Iran, e mentre leggo febbrilmente gli aggiornamenti mi torna alla mente il film di apertura del Festival, The End, un futuro post-apocalittico dove i combustibili fossili hanno preso fuoco per una ragione imprecisata e la terra è diventata inabitabile. L’idea è venuta al regista proprio a seguito di un’intervista a un oligarca che si è costruito un bunker per potersi rifugiare in caso di guerre nucleari ed eventi cataclismatici. Quell’oligarca probabilmente aveva già previsto quello a cui stiamo assistendo oggi. Peccato che Joshua Oppenheimer – sì, proprio quello di The Act of Killing e The Look of Silence – non abbia avuto l’autorizzazione per farne un documentario, come avrebbe voluto.
Che me ne faccio di questo strano e zoppicante musical che ci parla di ricconi che vivono da 25 anni in un bunker e cantano canzoncine? Che me ne faccio di queste bellissime scenografie e sfarzosi interni se sono al servizio di una trama annacquata, con personaggi che si comportano in maniera meccanica, dalle psicologie stentoree e fredde?
E già che ci siamo, che me ne faccio di un film come Sorry Baby, che più ci penso più mi disturba, un film che dovrebbe parlare di abusi, e che in un paio di occasioni riesce anche a farlo nel modo giusto, ma che poi si svilisce in un sentimentalismo autoreferenziale e mortifero. Un film in cui gli uomini sono o cattivi, o buoni ma scemi. Forse un modo per riequilibrare decenni di film che hanno svilito e trasformato in macchietta la figura femminile? Mi sta bene, ma quello che non mi sta bene è il patetismo stanco, artificiale. Nella seconda parte, le scene si ammucchiano senza logica né tensione, e la catarsi arriva attraverso un atto che sembra scritto a tavolino, appiccicato alla meglio, piacerà a quelli che amano commuoversi un tanto al chilo.
Futuro del Biografilm e Collasso della Mente
“Abbiamo cercato di eliminare le proiezioni sovrapposte, ma non è sempre facile, vorremmo l’anno prossimo avere meno film ma più slot, distribuendo meglio gli orari. Se riuscissimo ad avere anche il Modernissimo a pieno regime, potremmo davvero costruire una programmazione più fluida.”
Questo che parla è ancora Massimo Benvegnu, lo riconosco, anche se la sua voce mi giunge distante come un eco.
“Tanti modelli tossici, legati alla mascolinità, mi hanno condizionato.”
Eh?
Ho capito, ad esempio, che molti dei miei rapporti con le donne non nascevano dall’amore, ma dal bisogno di conferma della mia identità maschile.”
Alzo gli occhi e davanti a me c’è Rocco di Mento, autore di Toro, un curioso documentario che racconta della sua crisi esistenziale e del suo ritorno a Salò, città in cui è cresciuto. Lì esistevano due archetipi maschili a cui aderire: i punk, quelli strani, ribelli, anticonformisti, e poi i tori, forti, aggressivi, determinati a prendere ciò che gli spetta. Rocco non era un Toro, ma il suo migliore amico Angelo sì, e la storia di questa strana amicizia è il soggetto del suo documentario, un’opera che mi ha in qualche modo toccato da vicino.
Rocco, Bienvegnu, e Troilo sono ormai lontani, tutto si fa opaco e slavato. E’ passato un altro giorno. Sono nuovamente lungo i viali. Striscio come un verme dall’ostello all’infernale sala stampa. Può dirsi questa, un esistenza che valga la pena di essere vissuta?
In termini ben più seri, questa domanda se la pone il documentario di Reid Davenport, Life After, che ci parla del MAID (suicidio assistito legale in Canada). Interrogandosi sulla reale libertà di scelta per chi vive in condizioni di grave disabilità e sofferenza, Il regista si espone in prima persona e non nasconde la propria posizione.
Tuttavia, l’aver scelto di utilizzare il caso di Elizabeth Bouvia, una donna affetta da paralisi cerebrale, che per anni ha chiesto di morire e che forse si era semplicemente rassegnata a vivere, risulta strumentale. Il film ne fa una storia edificante, una parabola con una morale implicita: si vuole convincere che sia stato un bene che Elizabeth sia vissuta ancora a lungo, come dimostrerebbero alcune fotografie che la ritraggono sorridente. Ma la verità è che nessuno, né noi né il regista, può sapere cosa siano stati quegli anni per lei. Di una cosa possiamo essere certi: quando voleva morire, non è stata ascoltata. E non è forse il personaggio più indicato per farne un simbolo di una campagna che intende mettere in guardia dai rischi legati al fine vita. Ma la domanda rimane legittima: fino a che punto l’accesso al suicidio assistito è una scelta consapevole o il risultato di una società che fallisce nel garantire una vita degna?
the end is not The End
E fino a che punto è giusto far vincere il documentario femminista Girls and Gods e non dare nessun riconoscimento al magnifico The Father, the Sons and the Holy Spirit di Christian Sønderby Jepsen? Un’epopea intimamente dickensiana, che trae della rovina di due famiglie un racconto epico e commovente. Sarebbe veramente difficile scrivere una sceneggiatura che contenga così tanta umanità, disperazione e desolazione come quella delle famiglie di Henrik e Christian: tutto nasce da una grossa eredità e da un testamento che non menziona i nomi dei due fratelli, quando entrambi erano certi che a loro sarebbe spettata una grossa porzione di lascito. Si può dire, anzi, che avevano fino a quel punto impostato l’esistenza in funzione del momento in cui avrebbero ereditato i soldi. La vicenda è oscura, il testamento è forse falsificato, il padre dei due fratelli, uomo abietto e squallido, forse c’entra qualcosa, ma si rifiuta di vederli perché ha una nuova famiglia. Dimostrare che il testamento è falsificato, ottenere un confronto con il padre e vedersi riconosciuti quali legittimi eredi diventa il nucleo della discordia che nutre di rancore e manda lentamente alla deriva le famiglie di entrambi.
Violenza, abusi, tossicodipendenza, disagio, derive nazionaliste, Metal e Danimarca, come non amarlo?
Per me il vero vincitore di Biografilm 2025.

Sono le 14 di sabato pomeriggio, è l’ora perfetta per mettersi in viaggio e tornare a casa, mi dirigo verso la macchina, un cartello di piccioni mi accoglie con grida di odio.