#EFF2019 – Cronache casalinghe dall’Edera Film Festival – II Edizione: la Cricchetta colpisce ancora
Come ogni avvenimento cui partecipo almeno una volta nella vita, L’Edera Film Festival è diventato tradizione: uno di quegli appuntamenti fissi che lampeggia su Google Calendar, per me di importanza pari alla Mostra del Cinema di Venezia, al compleanno dei nipoti, o al pagamento delle rate della Cassa Forense. Imprescindibile, insomma.
Dopo le decine di pubblicazioni e di affettuose condivisioni “social” che abbiamo dedicato alla prima edizione, tenuto conto di diari, comunicati stampa e persino dell’intervista al regista dell’opera vincitrice, l’unica ragione di vita dei lettori della Cricchetta è diventata ormai seguire morbosamente lo svolgimento di questa seconda edizione, conclusasi oggi a Treviso. L’anno scorso ho speso fiumi di inchiostro per spiegare come l’ambiente del Cinema Edera sia per me un mondo familiare, che frequento non solo per godere dell’evasione di qualità data dai suoi grandi schermi, ma anche per l’accoglienza e cortesia riservate ai suoi ospiti. Per questo ritornarci, anche nell’impegnativa veste di inviata speciale, è sempre un piacere.
Mi precipito quindi, a pochi minuti dalla proiezione del primo lungometraggio in programma, a ritirare l’accredito. Al pronunciare il nome della testata, un signore lì accanto si illumina in volto. “Ah, la Cricchetta del Cinemino, ho letto i vostri articoli!”. Stupita dell’attenzione rivoltami e lusingata da tanto entusiasmo, approfondisco la questione chiedendo cosa fosse piaciuto del nostro lavoro. “Beh sa, la maggior parte dei giornalisti si limita al mero copia-incolla dei comunicati stampa o, peggio ancora, a sterili vetrine senza empatia, personalizzazione o senso critico. Non mi fraintenda, la pubblicità patinata non guasta, sia chiaro, ma l’Edera Film Festival nasce con spirito di coinvolgimento e partecipazione, pertanto contiamo sulle approfondite osservazioni degli appassionatissimi come voi per comprendere da un punto di vista esterno i risultati dei nostri sforzi.”
Commossa da queste parole, così in sintonia con lo spirito del posto e talmente belle da farmi sperare di non essermele solo immaginate, faccio per dirigermi verso la sala. “Ah, aspetti. Mi piacerebbe che fossero puntualizzate due cose: che c’è stato un lavoro enorme per la scelta delle opere in concorso tra le 2300 presentate -vede, la gente sembra non rendersene conto- e che il Cinema Edera e l’Edera Film Festival sono due cose distinte: il Festival è promosso dall’Associazione Culturale Orizzonti e si appoggia alle strutture del cinema Edera”. Gentilezza genera gentilezza, così, come promesso, ecco precisato.
Comunque, al di là dei cappelli introduttivi indispensabili per far respirare ai lettori l’aria dell’evento, noi della Cricchetta siamo qui per i film, e l’incredibile selezione che l’evento garantisce, coadiuvata da un’organizzazione degna di festival a largo budget, parla chiaro.
KUYA WES di James Robin Mayo, è lungometraggio filippino che ci mostra come il mondo sia diviso tra chi crede ancora nelle favole, e tutti gli altri. Difficile, per noi arcigni adulti vissuti e disincantati, non provare tenerezza e segretamente fare il tifo per il signor Wes, sportellista tutto cuore di un’agenzia di trasferimento di denaro della grande e grigia Manila. Il timido protagonista, invisibile per le nipotine cui ogni giorno dedica un dolce pensiero, sfruttato dal fratello e dalla cognata, ogni 16 del mese compie il suo intimo atto di ribellione alla ruvidezza della realtà: si innamora. Tutta la sua felicità gira intorno a quell’attimo in cui la signora Erika varca la porta dell’ufficio per il consueto prelievo mensile: un suo sorriso cancella le frustrazioni dei ventinove giorni precedenti. Il suo innamoramento segue i rituali e le fantasie delle cotte adolescenziali: i cuoricini ritagliati e appesi sul calendario, i goffi appostamenti, i dialoghi immaginati e l’espressione inebetita di chi ha cancellato tutti i pensieri per fare spazio all’unico che conta. Una storia semplice, raccontata attraverso inquadrature geometriche e colori brillanti, che avrebbe rischiato di cadere nell’inconsistenza se il regista avesse indugiato un minuto di più sulla narrazione. Per fortuna, la modesta durata rende l’opera un momento di svago ilare e leggero, che strappa un sorriso a chi è disposto a non prendersi troppo sul serio.
THE PIGEON THIEVES di Osman Nail Doğan, lungometraggio turco, mi ha insegnato innanzitutto che i piccioni, oltre ad essere indomiti colonizzatori, indefessi velocisti, indiscussi protagonisti di cult quali “Mamma ho perso l’aereo”, produttori di prezioso guano che ammorbidisce le pelli destinate alla conciatura, sono animali ricercati anche per la loro bellezza. Almeno questo è ciò che succede in un villaggio dell’Anatolia, dove una vera e propria febbre del piccione tiene occupati gli uomini giorno e notte. Chi li alleva, chi organizza le aste, chi li ruba. Anche Mahmut, ragazzino scapestrato, dedica tutte le sue energie ad arricchire il suo tesoretto di volatili, andando a caccia degli esemplari migliori, poco importa se appartenenti ad altri. Nella ricerca del suo uccello preferito, “bianco latte”, si imbatte nella determinazione di un bambino deciso a costruirsi una casa, mattone su mattone, per assicurare a sé ed a sua mamma un posto per vivere al sicuro dai creditori. Mahmut decide allora di prendere il piccolo sotto la sua ala, trasmettendogli l’unica cosa che possiede: il suo amore per i piccioni. La storia prende quindi la forma di un doppio romanzo di formazione, quella del bambino e quella di Mahmut: una formazione di strada, claudicante, che rimane forse incompiuta. Una ricerca di riscatto attraverso la piccola criminalità che mi ha ricordato molto l’argentino “L’educazione di Rey”. L’elemento che tuttavia risulta più apprezzabile è la fotografia, a partire da una delle prime scene che mostrano le incursioni notturne della giovane gang di ladri, tra polvere, piume e rovine.