Hong Kong sarà davvero Cina?
Viviamo gli anni dell’ascesa dell’impero cinese e dell’inesorabile declino di quello americano. Ciononostante, la potenza che ci ha cresciuto, arricchito e dominato negli ultimi cent’anni, indebitata fino al collo, è di fatto l’unica forza che sta rallentando, per il poco che può, la conquista del mondo da parte della Cina. In realtà, economicamente parlando, il mondo è già giallo, la super potenza orientale ha acquistato da tempo gran parte del debito pubblico occidentale, USA compresi. In pratica l’America si oppone alla Cina coi soldi Cinesi.
Questo doveroso preambolo è necessario a comprendere un fatto cruciale legato a questo film in concorso a Venezia, per arrivarci basta chiedersi: perché non abbiamo ancora tutti un capo cinese e la nuova generazione non sta parlando il mandarino?
La risposta è qui, nella Cricchetta e nella cittadella della Biennale, ma anche nella PlayStation, nei romanzi e in ogni concerto a cui urliamo sbracciandoci: la Cina non ha ancora vinto perché manca il Sogno Cinese. È il numero uno a livello militare ed economico (Hard Power) ma non nell’appeal (Soft Power), tutti abbiamo subíto l’influenza del sogno americano ma nessuno di quello cinese. Alla Cina manca un’arte capace di coinvolgere l’occidente, manca un qualcosa capace di renderla desiderabile al volgo, manca la capacità di muovere “spontaneamente” le masse come fa sistematicamente l’America. Mancano musica, cinema, musical, videogame, miti e romanzi, manca insomma tutto il substrato che ha reso gli Stati Uniti l’utopia a cui tutti, ben infarciti e lentamente veicolati, volevano arrivare fino a ieri.
Potrebbe conquistare tutti con una guerra, certo, il pugno duro regala sempre qualche momento di gloria ma è troppo intelligente e lungimirante per non capire che un dominio duraturo si conquista partendo dal cuore della gente e, questo film, dopo i tanti fortemente caratterizzati dal territorio, locali, per appassionati d’oriente, è un primo, determinante passo. Dimostra capacità artistiche capaci non solo di tenere il passo con i più grandi geni pazzoidi della storia ma anche uno spunto originale, una luce per il futuro che gli insetti non potranno che seguire.
È un film d’animazione dove l’animazione è praticamente assente, è tutto girato al rallenty. La staticità dei quadri va a braccetto col ritmo elegante della narrazione ma contrasta decisamente coi vortici turbolenti di emozioni provati dai personaggi sullo schermo e dallo spettatore in sala.
Alterna momenti di romanticismo al limite dello sdolcinato ad altri di eleganza abbagliante e mescola tutto con una sessualità e una violenza esplicite, quasi sempre disturbanti. Ammicca al sesso in tutte le sue forme più eccitanti sciorinando a video anche perversioni tabù, come ad esempio la zoofilia e la gerontofilia, indimenticabili le scene legate al sesso col ritardato mentale omosessuale. Lo spettatore è volutamente messo a disagio, molti hanno preferito uscire di sala a metà proiezione ma non è il sesso a infastidire e confondere, la causa si nasconde in un magma viscido, impalpabile, che permea tutto, fa sentire sporchi e ruota lo stomaco al limite della nausea o della risata isterica. La psicadelia di fondo, si sarà ormai capito, è il vero tema portante di un’opera a volte davvero al limite del no-sense.
Mi sono divertito molto.
Basta una mezz’oretta di visione per capire che questo progetto visionario, multi-sensoriale e onirico trascende la semplice esperienza cinematografica. È già in concorso in uno dei tre più grandi festival artistici al mondo ma non basta, dovrebbero istituire un concorso a parte per farlo vincere. Perché qui, accompagnato da tanto intrattenimento e tentativi maldestri di spacciare la noia per autorialità, non vincerà mai.
Capisco l’applauso perplesso a fine proiezione e la diffidenza verso il cinema asiatico, ormai perla rara negli ultimi anni qui a Venezia ma, dopo cinque giorni dall’inizio della manifestazione, ho finalmente visto un’opera che fa della componente creativa il suo unico motivo di esistere. E’ uno sforzo che non posso che applaudire.
Vale la pena vederlo anche solo per odiarlo. Le sua qualità e la sua caratura artistica hanno un respiro interazionale e un appeal d’alto bordo capace di far breccia negli influencer di ogni dove. Questo film è un pesantissimo piede tra l’infisso e la porta dell’Occidente, è l’incisivo d’acciaio che rosicchia da dentro i confini delle nazioni più arroccate, è parte di quel Soft Power che nel tempo farà alla Cina quello che Hollywood ha fatto per gli USA, deve solo limare un po’ le dosi di LSD. Ti ho avvertito vecchio sbruffone Bianco, la domanda non è “se”, ma “quando” uscirà Shanghai Shanghai di Liza Minnelli.
PS Questo film insegna che i cinesi vivono molto male il luogo comune sulle dimensioni del pene degli asiatici.
PPS Articolo liberamente ispirato dallo spettacolo Le linee rosse di Federico Rampini.