Da quando sono tornata a vivere (e qui dovrei aggiungere stabilmente, se solo questo avverbio non mi mettesse addosso una buona dose di ansia) nel Profondo Veneto di Provincia, considero l’appuntamento settimanale con gli amichetti all’Edera uno di quei riti che permettono di riallacciare i fili con un luogo uscito per molto tempo dalla quotidianità e di ricominciare a chiamarlo “casa”.
Funziona più o meno così: ci mettiamo d’accordo sul film, ci ritroviamo una mezz’oretta prima della proiezione davanti al cinemino e poi scegliamo tra due opzioni: se non piove, non fa troppo freddo e se le sedie del bar dietro l’angolo non sono tutte occupate da tipi con facce tatuate e qualche traballante dente nero, prendiamo posto lì e ordiniamo un Montenegro, con o senza ghiaccio. Altrimenti spingiamo il pesante maniglione dorato della porta a vetri e ripetiamo l’ultima delle precedenti operazioni, ma bevendo in piedi, davanti alla saletta con l’affettuoso nome proprio di “Piccolo Edera”.
Gli affezionati dell’Edera sanno che nel comprare il biglietto azzurro si firma un contratto: una volta dentro al cinema, si accetta di diventare un tutt’uno con l’arredamento anni ’60, così simile a quello che ogni giorno spolvera la vostra vecchia zia, e anche gli altri spettatori (pochi altri spettatori), smettono di essere estranei per diventare vostri parenti stretti.
Rullino i tamburi, ora non mi resta che fare outing: sono arrivata alla fine dei vent’anni vergine di Festival del Cinema. Per questo, quando ho visto annunciata la prima edizione dell’Edera Film Festival, che si scrive così ma che per quanto spiegatovi sopra si pronuncia Casa Film Festival, ho pensato che avessi davanti il giusto posto sicuro per la mia prima volta.
Come succede in ogni famiglia quando si aspettano ospiti di tutto rispetto, casa Edera è stata tirata a lucido nei mesi precedenti all’evento, con un periodo di chiusura che ha lasciato a bocca asciutta anche i suoi fedeli in attesa della preziosissima rassegna estiva. In cuor mio speravo che non avesse subito interventi di lifting troppo invasivi: nessuno vuole vedere la vecchia zia con le labbra gonfie di botox nella speranza di apparire più appetibile. Sospiro di sollievo: niente punture deformanti, l’esterno dell’edificio ospita ora riproduzioni in bianco e nero di scene di vecchi film e l’interno è stato impreziosito dal comfort di nuove poltrone. Una sola cosa mi ha fatto un po’ male: la freddezza di un totem elettronico “saltacoda” per scansionare gli abbonamenti posizionato di fronte alla cassa. Mentre rifletto su quale coda ci sia mai bisogno di saltare all’Edera, realizzo che al suo posto avrei preferito vederci un vecchio flipper costantemente in tilt.
Sono le quattro del pomeriggio e sono arrivata un po’ di corsa boccheggiando nell’afa record della pianura padana. Nel raggiungere il cinema sorrido al carpire da una conversazione un laconico “in sala non ci sarà nessuno”, ma contrariamente a questa constatazione pessimista, mi lascio sorprendere da tutto il movimento che trovo all’ingresso. Alla sinistra, un nutrito staff con maglietta griffata distribuisce materiale e gadget e anch’io, emozionatissima, riesco ad afferrare per la prima volta il mio accredito press (adorabilmente scritto a penna), la borsetta in tela ed un corposo catalogo del festival stampato a colori. Mi metto il pass al collo e ormai è fatta, mi sento già una bulla!
Non faccio neanche in tempo a provare qualche espressione da stronzetta del quartiere quando viene annunciato l’inizio delle proiezioni. Mi trovo un po’ spiazzata: sapevo che c’erano in programma contemporaneamente un lungometraggio e dei documentari e sapevo anche che volevo vedere il primo, ma non mi ricordavo più quale fosse la sala da varcare. Mi avvio fiduciosa verso la prima coda che vedo formarsi e chiedo “E’ qui che proiettano il film, vero?”. Vengo rassicurata dalla ragazza all’ingesso e mi siedo in quarta fila, insieme ad una ventina di altre persone. Mi immergo subito nello studio dei miei compagni di sala quando mi arriva, tagliente, la verità: “tra poco comincerà la visione dei documentari in concorso…”: è il panico.
Primo documentario: “Iku Manieva” di Isaac-Ruiz Gastélum. Lo schermo diventa tutto bianco, si aggiunge solo il sonoro di agenti atmosferici, pioggia per lo più. Dopo due interminabili minuti senza variazioni sul tema appare un albero nero, e ora si sente bene anche il vento. Passano altri due minuti. Comincio a sperare che coi lavori di ristrutturazione abbiano aggiunto nelle sale quei dispositivi che permettono di spruzzare acqua sugli spettatori in sala per far diventare la visione 4D, l’unico modo per resistere al terribile abbiocco favorito dalla nuova comodità delle poltrone. Aspetto speranzosa il getto salvifico, ma di colpo tutto si interrompe: “Scusate, c’è un problema tecnico, il documentario ovviamente non sarebbe così. Lo riproietteremo per ultimo, perché è un gioiellino”. Sospiro e comincio ad amarli tutti.
Secondo documentario: “Maria vola via” di Michele Sammarco, seguito da Q&A con il regista. Una produzione del tutto casalinga, qui il vecchio zio e la vecchia zia ci sono davvero, separatamente intenti nel lavoro che la campagna esige da ciascuno dei due. Niente che mi ipnotizzi, ma lo capisco. L’idea del giovane padovano, a contrario mio così fedele alla sua Provincia, è quella di raccontare ciò che conosce. Apprezzo il coraggio di portare sul grande schermo le rughe dei suoi parenti, di mostrare i rituali di famiglia senza niente voler aggiungere alla sua estenuante ordinarietà, di trasmette affetto e riconoscenza per quel piccolo mondo rurale che la maggior parte degli under 35, protagonisti del festival, vivono appunto solo da spettatori. Le Rogazioni sono una celebrazione religiosa mariana volta a propiziare il raccolto: le croci costruite dai contadini con rami d’ulivo benedette da Maria vengono posto ai confini del campo, per poi essere bruciate e tornare alla terra. Sorrido, e penso a quando le mie zie mi hanno convocato di tutta urgenza per affidarmi la delicatissima e vitale missione di scrivere in giuridichese una lettera al Signor Sindaco perché venisse sostituito al più presto l’albero malato che ospitava il capitello della Madonna a due passi da casa. Lettera ovviamente scritta, firmata da tutto il vicinato coltivatore diretto e recapitata alle illustrissime autorità pubbliche. So che ormai fremete dalla voglia di conoscere le sorti della Mamma di Gesù di campagna. Ebbene, c’è stato qualche intoppo burocratico perché quell’albero insisteva nel mezzo di un incrocio di strade che doveva essere trasformato nell’ennesima rotonda, ma tranquilli: Maria ha vinto anche sul diritto amministrativo. Michele ha annunciato che per il prossimo lavoro sta filmando i suoi dialoghi col nonno, che sta perdendo progressivamente la capacità di riconoscerlo per via dell’Alzheimer: lunga vita al nonno, ci sarò.
Terzo documentario: “Hanaa” di Giuseppe Carrieri. Chi mi conosce sa che per vocazione personale ed interesse professionale sono la prima a sventolare l’hashtag #humanrights, anche con una sorta di intimo godimento nei confronti di coloro che di riflesso sono capaci solo di rispondere “#buonismo”. Ma la tecnica di intrecciare e sovrapporre per 87 lunghissimi minuti le storie senza speranza della sposa bambina indiana, della ragazza madre peruviana, della schiava del sesso nigeriana, e come se non bastasse della quindicenne siriana venduta come moglie ad uno sconosciuto, ha la capacità di stremare anche la più fervente delle attiviste.
Esco rintronata dalla sala e mi faccio coraggio per passare dalla gradevole temperatura condizionata alla pesante canicola esterna. Pronta a trattenere il fiato spingo la porta a vetri e mi stropiccio gli occhi: piove! Un filo di vento mi fa rabbrividire. Il miracolo di casa Edera.