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#TFF36 …Il primo impatto col Torino Film Festival 2018, Wildlife di Paul Dano

di il 03/12/2018
 

Come ogni anno, il Torino Film Festival risveglia la passione (non solo quella per il cinema) dopo troppe settimane di lavoro serrato. Che uno sia lo zerbino in giacca elegante del capoufficio, il garzone a tempo determinato con grumi di cerume nelle orecchie o l’imprenditore d’assalto sessualmente depresso, da una cosa non scappa: i primi mesi dell’anno dopo la pausa estiva li passerà a testa bassa, sprecando in un quotidiano monocromatico le quattro energie in croce guadagnate durante quelle maledette ferie costellate da sovrapprezzi, Mojito annacquati, lungomari affollati e pesce surgelato.
Novembre in particolare, così terribilmente violaceo, è un incendio di stress, pranzi veloci, glutine, depressione, rush da intolleranze, capelli in caduta libera, sonno irrecuperabile, confusione e progetti succhia-sangue schiacciati sul profitto immediato. Novembre, insomma, accende un fuoco che solo il primo weekend del rinomato festival cinematografico di Torino sa spegnere. Un’autoclave dal mondo dei sogni. Finalmente, dopo tanto fumo nei polmoni, si respira di nuovo.

All’arrivo vengo accolto da una città umida, scontrosa e imbruttita dal grigio sfocato di un telefonino rotto. Non faccio in tempo a lanciare la sacca sul lettone del primo B&B capitato sottomano e legare l’accredito stampa al collo che mi trovo felice su una poltroncina vellutata, leggermente impiastricciata dagli ombrelli mal riposti. Sigla. Non vedo l’ora che si aprano le finestre affacciate su milioni di mondi fantastici anche se, già lo so, non tutti più belli di quello reale, come ad esempio Wildlife di Paul Dano. Il film getta uno sguardo frettoloso sulla rigida mentalità sociale americana degli anni sessanta: scimmiette che dovevano seguire la linea rossa lampeggiante ben tracciata a terra, e se una di loro provava a cambiare strada, anche solo per orgoglio come nel caso del protagonista, diventava un nemico della nazione, della società, della famiglia e della moglie. Insomma, tutto esattamente come ai giorni nostri. La differenza è che all’epoca l’ipocrisia era schietta e sfrontata, non viscida, biancastra, putrida e traslucida come oggi. Il delirio da etichetta che sbandiera questo piccolo spaccato di vita viene affidato al ruolo della moglie, indispettita da un marito che si rifiuta di piegare la testa al destino. Ciononostante lui vorrà prendere in mano le redini della sua esistenza e decidere di rischiare partendosene con un gruppo di maschioni muscolosi in un camion arrugginito come nemmeno nei video dei Village People (Jake Gyllenhaal, dopo Brokeback Mountain, non si smentisce) per spegnere un incendio in montagna che lo terrà fuori casa per qualche settimana. Lei, per tutta risposta, rimasta sola col figlio adolescente, si affretterà (dando un effetto obiettivamente ridicolo) a prostituirsi con un vecchio-donnaiolo-grasso-zoppo-spelacchiato® che la considererà meno di quanto facciano i pastori sardi con le loro pecore. Perchè lo fa? Un po’ per ripicca, un po’ perché il vecchio è un buon partito e un po’ per forzare la didascalia del film, come fosse un fumetto per ritardati.

La scena da ricordare: la moglie viene invitata a cena dal vecchio sporcaccione per unirsi nell’intimo e unticcio atto d’amore ma decide a sorpresa di portarsi dietro il figlio adolescente in modo che veda la scena. Una cosa è certa, la gente pur di eccitarsi non guarda in faccia a nessuno dei danni eterni che può creare agli altri. In sala, inquietato da questa stramberia, mi giro da tutte le parti ma non vedo sbigottimento, tutto normale, nemmeno un piccolo movimento di sopracciglia dalla platea. Sarò sbagliato io, avrò una mentalità retrograda ma ringrazio comunque mia mamma per non avermi usato in questo modo.

Alla fine della visione mi rimane la precisa coscienza di aver assistito ad un classico film usa e getta, senile, buono forse per una domenica annoiata in una sala d’essai, un’opera che si prende troppo sul serio, senza infamia e senza lode, l’emblema stesso del motivo per cui un neofita avrebbe tutto il diritto di mollare al suo destino il mondo del cinema “impegnato”. Consigliare questo film in particolare è un crimine verso la settima arte soprattutto per la sua incapacità di colpire a fondo come vorrebbe tanto. Cosa ci abbia visto la giuria del festival per premiarlo come migliore pellicola in concorso rimane un mistero, ma di misteri ne è pieno il mondo, ad esempio la religione cattolica ci campa da duemila anni senza problemi. In realtà i film in concorso sono da sempre la parte meno interessante della manifestazione torinese e la sezione Afterhours è li proprio per garantire un contraltare di visioni ben più memorabili.

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