Metti che sei ragionevolmente disgustato dal genere umano, compreso te stesso.
Metti che appartieni a quella generazione che, quando voleva parlare di niente, disquisiva sul sesso degli angeli, anziché su quello dei pugili.
Metti che hai guardato una ventina di film in due settimane, frutto di una meticolosa selezione, e che solo un paio si siano salvati dal tasto dell’avanzamento veloce (nel caso interessasse, sono: Un estate dal nonno di Hou Hsiao-hsien e Belle Époque di Fernando Trueba).
Metti che hai ancora amore per il cinema e che sei stanco di vedere film solo a casa perché non sopporti i film per e di bambinoni, con o senza superpoteri, che proiettano nelle sale.
Metti che, dove vivi, ci sia un festival di cinema indipendente, il Cinemalaya Independent Film Festival, giunto già alla XX edizione, con pellicole necessariamente a basso costo e con attori per lo più sconosciuti ma che costituisce un laboratorio dove è ancora possibile sperimentare o raccontare storie che nessuna grande casa di produzione approverebbe.
Eccomi lì, un martedì pomeriggio, a vedere Tumandok, dei registi Richard Jeroui Salvadico e Arlie Sweet Sumagaysay.
Gli Ati, un gruppo etnico Negrito, ancestralmente residente nelle colline delle Visayas occidentali, una regione delle Filippine, è soggetto a intimidazioni, ferimenti e persino omicidi da parte di individui che non si sa se appartengano alle forze dell’ordine o se siano banditi prezzolati dai ricchi proprietari delle pianure. Di certo nessuno li vuole dove sono e anche le rimostranze del capo dalla tribù e la richiesta di aiuto alle autorità locali, si scontrano contro il muro di gomma della burocrazia e delle sue impossibili imposte. Ai poverissimi Ati, che vivono di magra agricoltura, in capanne di bambù coi tetti di lamiera, senza alcun tipo di servizio, elettricità compresa, non resta che resistere coraggiosamente o scappare. I due diversi atteggiamenti sono incarnati rispettivamente da En-en e da Dino, i due figli del Capitano, il capo tribù. Il finale resta sospeso, col racconto del sogno ad occhi aperti di En-en di vedere la loro comunità svilupparsi e crescere nella terra in cui sono nati.
Applausi.
Un nutrito gruppo di persone in rappresentanza del film, è pronta a rispondere alle domande del pubblico. Tra loro, insieme all’attrice protagonista, anche la vera En-en. Sì, perché il film è giustamente etichettato come docu-fiction. La storia non è inventata. Tutto è successo e succede davvero. La comunità Ati è in pericolo e minacciata adesso. Da quel poco che riesco a capire dalle domande e risposte in tagalog, lo scopo principale del film è sensibilizzare l’opinione pubblica sul dramma di questa etnia (tutto il film è interpretato dagli Ati stessi e parlato nel loro idioma) a forte rischio di esproprio e, conseguentemente, dispersione e estinzione.
Il mio giudizio sul film cambia completamente. Poco importano una certa mancanza di ritmo nella sceneggiatura o la debole caratterizzazione dei personaggi. Chi se ne frega se mi sono anche un po’ annoiato. Questo è un film necessario. Grazie ad esso, la comunità sta ricevendo numerose donazioni per pagare le spese legali (30.000 euro per vedere riconosciuto il diritto di vivere sulla loro terra). Alcuni avvocati si sono già offerti di rappresentarla gratuitamente.
L’autentico bambinone italiano, che è il sottoscritto, chiede: “Com’è possibile che, nonostante le violenze subite, le autorità non siano intervenute?”. La regista inizia a raccontarmi di nuovo il film e poi, in un crescendo di emozione, scoppia a piangere, seguita immediatamente dalla vera En-en.
Sono mortificato e mi vergogno della mia ingenuità. La loro muta e dolente risposta è già tutta nel film che ho appena visto.
Le forze dell’ordine, le autorità civili non sono entità astratte. Sono persone, con interessi, amicizie, complicità. Nel sistema capillare della rappresentanza del potere, l’ultimo gradino, quello inserito nella vita quotidiana del quartiere che amministra, è praticamente onnipotente. Il capo barangay e la polizia locale possono anche macchiarsi di crimini efferati e rimanere impuniti, se il loro agire serve gli interessi economici della classe dominante. Durante la presidenza Duterte, la polizia riceveva le segnalazioni sui (presunti) spacciatori o tossici da eliminare proprio dagli uffici di questi distretti. Quella ai danni degli Ati si configura, in fondo, come una pulizia etnica. Sono selvaggi delle montagne, a chi frega se spariscono. Sono sicuro che i sicari del potere dormono sonni tranquilli e, la sera, baciano la moglie e i loro bambini con tenerezza, così come i soldati e i loro mandanti in Israele, dopo avere bombardato scuole e ospedali.
Il genere umano è disgustoso ma alcune persone, per quello che fanno, sono più ripugnanti di altre.
Molto.
Tumandok (2024) | |
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Rating: N/A/10 (N/A votes) Director: Richard Jeroui Salvadico, Arlie Sweet Sumagaysay Writer: Arden Rod Condez, Arlie Sweet Sumagaysay Stars: Jenaica Sangher, Felipe Ganancial, Ariel Barba Runtime: 88 min Rated: N/A Genre: Documentary, Drama Released: 03 Aug 2024 |
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Plot: The Ati, a Negrito ethnic group in Western Visayas, Philippines, have been steadfast in their fight to reclaim ancestral lands. In a rare opportunity, they take center stage in a film that intimately recounts their tales of struggle. |