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A Girl Walks Home Alone At Night di Ana Lily Amirpour

di il 12/06/2018
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IL MIO VOTO


AFORISMA
 

I’m bad

 

Parlare di cinema per non parlar d’amore”, sticazzi. Nel 2018 ormai nessuno finge di non sapere che questo angolo a righe bianche e blu è nato proprio dalla specifica urgenza di scrivere e leggere anche d’amore, all’ombra sicura della nobilissima scusa del cinema. Perché l’amore, quella cosa che i greci definivano con una decina di parole e noi, per endemica pigrizia, solo con una, è una pianta selvatica potenzialmente infestante capace di attecchire anche negli ambienti più ostili.

Prendiamo allora una città fantasma fintamente iraniana abitata da gatti grassi, trans che giocano con i palloncini, prostitute che giocano con gli uomini ed avanzi di uomini che giocano con gatti, trans, prostitute e droghe pesanti. In questo alveare di reietti, (che messo a confronto con Mestre, il quartiere underground di Venezia si guadagnerebbe il titolo di pittoresca cittadina di provincia), una ragazza cammina sola nella notte e, per una volta, non è preda ma predatrice. A guardarla da vicino, non è neanche tanto sola, dal momento che trascina con sé per le strade buie di Bad City il bisogno primario di nutrirsi di sangue altrui.

In un mondo del tutto privo di colori, è lei a decidere cosa è bianco e cosa è nero, all’esito di un attento e silenzioso scrutinio delle vittime, delle quali diviene ombra e scrupolosa coscienza. Sono i suoi grandi occhi cerchiati a sentenziare senza appello: giovane drogato di coca e di techno? Nero, porgimi il collo tatuato. Bambino rumoroso ed impaurito? Bianco, per questa volta ti grazio, ma ti fotto lo skate. Da secoli questo personale schema di giustizia privata si ripete così, lentissimo come la narrazione del film ed inesorabile come l’immortalità della nostra vampira, che in una città a maggioranza islamica, non può nemmeno sperare in una croce che le infilzi il petto da parte a parte.

Sarà qualcos’altro a trafiggerle il cuore, qualcosa che salva il film dall’eccessiva diluizione e ci regala inaspettate porzioni di poetico stordimento: l’Incontro. Un incontro con un ragazzo smarrito che non conosce nulla di lei e che, scambiando ingenuamente la sua fredda distanza per tenera vulnerabilità, fa inceppare il rigido meccanismo di vita e di morte, trasformandolo in un fitto dialogo dei sensi.

Ogni incontro tra i due è una stretta. Pochissime parole ed un abile gioco di maschere innesca il fenomeno del riconoscimento tra due anime estranee avvolte nello stesso mantello. Pochissime parole ed un’accurata suggestione musicale ci trasportano al centro del vortice, in quella superficie magnetica che si estende tra bocca dell’una e collo dell’altro dove tutto l’essenziale viene detto. Pochissime parole e molti sguardi risolvono l’eterna incognita del domani, del cosa ne sarà dell’innamoramento quando i raggi del sole bruceranno il mistero della notte rivelando la vera essenza delle cose, tra cui il fatto che lei è una vampira e che probabilmente finirà per staccargli un dito a morsi.

Per questi momenti ad altissima tensione, perché anche la protagonista indossa una maglietta a righe e soprattutto perché sono irreparabilmente adorabile, vi invito a godervi l’incanto, perdonando a questo film i molti riferimenti alla causa femminista e l’immobilità contemplativa di troppe scene.

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